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Peligorga Gezim

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Le prime tre poesie di questa silloge indicano la condizione esistenziale del poeta che sopravvive all’ansia, all’angoscia, alla pena portata da ogni nuovo giorno, attraverso la poesia, che fa morire e rinascere come la Fenice.
La quarta poesia stabilisce il legame fra l’essere del poeta e la genesi socio-ambientale della sua poesia.
“…Arbëri:/ tu hai scelto me/ per essere il tuo martire”
E’ una poesia che contiene le parole chiave di tutta la silloge se non dell’intera produzione di Gëzim Hajdari. “Martire” e “Besa” (promessa) stanno ad indicare un impegno che preso una volta, si prolunga nel tempo e non si esaurisce se non con la morte. Ma costituiscono anche una condizione di continua sofferenza che conduce il poeta a rintracciare nel suo corpo l’esito di ogni percorso. Il legame fra la situazione socio-ambientale e la genesi conduce ad una sorta di autobiografia che va dalla rivelazione della incidenza degli elementi naturali nel costruire il dato poetico (vento, lupi, pioggia) alla rievocazione di fatti e avvenimenti che avrebbero segnato con un marchio di fuoco la sua indole e il suo cammino di poeta.
Così la morte di Stalin viene vista dalla comunità come una tragedia a tal punto da far desiderare la morte dei figli piuttosto che quella del dittatore sovietico.
“Così sono venuto al mondo/con…/..l’augurio di morire/ al posto di un dittatore”.
I sogni giovanili si spengono e al giovanissimo poeta non resta che uscire “da solo nel buio/vagando lontano dai passanti”.
Modo di fare, modo di agire che crea nella comunità la favola della sua pazzia e del sue legame con le anime malvagie (xhin).
Nel disvelamento autobiografico significativi sono alcuni episodi che più di altri hanno determinato la vocazione poetica. In “avevo compiuto dieci anni” se ne esprime la totale rivelazione. Si racconta della impiccagione di un poeta dissidente del regime, degno perciò della massima punizione. L’esecuzione lascia una forte impressione nel ragazzo di dieci anni.
In più poesie viene dimostrato come quell’episodio costituisca il nerbo della inclinazione poetica, come da quell’episodio si stabilisca l’assunto stesso dell’essere poeta. “Passarono anni, venti, nevi, / viaggiando nell’esilio. / Ma non mi esce dalla mente / l’impiccagione del poeta ribelle”: E’ questo fatto che determina la “Besa” del poeta. Egli non potrà da quel momento che essere un poeta, tormentato, infelice, così da non trovare “più pace”.
L’impiccagione di un poeta strappa una inconscia promessa a quel bambino di 10 anni: diventare “martire” della poesia, per la poesia.
Da quel momento tutta la sua vita sarà orientata ad essere poeta e utilizzare la parola per esprimere la verità della vita e di sé.
“Quel macabro ricordo/ segnò il mio destino del sud./ In un villaggio di agricoltori/ scelsi la strada del verbo”.
La scelta della poesia che investe il poeta ”impietosamente/ dalle pietre dei [suoi] versi” si è corroborata con gli strumenti della parola che la povertà e l’indigenza hanno messo a sua disposizione.
Il padre, costretto a fare il pastore, aveva nel sacco “un romanzo da leggere” che la moglie gli metteva ogni giorno, prima che partisse per le montagne.
Quando tornava alla sera egli raccontava quanto aveva letto e “attorno al caminetto, in silenzio / noi ascoltavamo rapiti”.
La parola “impiccata”, la parola scaturita dalla necessità e donata perché nessun altro agio poteva essere riversato dal padre: sono questi gli elementi genetici della poesia di Gëzim Hajdari che si rintracciano in questa affascinante silloge poetica.
Con questi strumenti il poeta continua la sua lotta di testimone della verità dell’uomo che nonostante il frastuono assordante dei nostri giorni, nonostante le distrazioni massmediatiche, rimane un essere “solo”; perché ciascun uomo, in fondo, viene investito dalla “maledizione degli xhin“, ovunque egli sia.
Con questa consapevolezza l’ultima cosa che rimane è “farsi polvere/ cenere/ oblio/…abitare il silenzio”.
Anche in quest’ultima raccolta ci viene offerto alla fine una sorta di poemetto, così come Gëzim Hajdari sta facendo negli ultimi testi pubblicati.
“Contadino della tua vigna” – titolo del poemetto – è un dialogo d’amore, ad imitazione, forse, del Cantico dei Cantici.
Poemetto intenso e audace sotto molti aspetti per immagini e metafore erotiche, che tuttavia non scadono mai nella volgarità e mantengono sempre una elevata tensione poetica.
Potrebbe essere forse possibile, a partire da questi versi, una analisi, del modo in cui il poeta vive il fattore della sessualità, ma si andrebbe al di là dello scopo di questa recensione, fatta per cogliere gli elementi di grandezza, ove vi siano, della poesia, piuttosto che investigare sulla psicologia del poeta.
Sul piano tecnico, mi sembra che ci siano importanti novità.
La struttura della versificazione è diventata più lineare e, specialmente, scandita da una punteggiatura che semplifica la lettura, ponendo il lettore nella felice situazione di gustare il ritmo del verso, le immagini poetiche, piuttosto che tormentarsi dietro una complicata decifrazione del significato.
Gëzim Hajdari è un poeta che arriva direttamente al cuore ed è alieno dalle elucubrazioni cerebrali di tanta poesia dei nostri giorni.

 

03-09-2007

 

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