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Piccola intervista

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Il contenuto del testo di questa scrittrice di origine russa ci riporta ai primi anni della letteratura della migrazione quando si percepiva che gli immigrati facevano una grande fatica ad entrare in rapporto con gli italiani e alcuni di loro, quelli con maggiore spessore culturale, sceglievano la scrittura come strumento per poter esprimere il loro disagio. La scrittura di quel periodo prodotta dagli immigrati risentiva di questa urgenza e necessità esistenziale risolvendosi in autobiografia che spesso non si poneva neppure l'ipotesi di una composizione letteraria.
Molti avevano risolto la loro comunicazione attraverso racconti di episodi avvenuti in Italia o comunque vissuti dopo essere usciti dal territorio di nascita; è il caso di "Io venditore di elefanti" oppure di "Princesa"; altri avevano scelto di esprimere la loro condizione nel paese da cui erano partiti per giustificare il percorso migratorio. Fu il caso di "Volevo diventare bianca", "Lontano da Mogadiscio".
Successivamente la letteratura della migrazione si era "emancipata" offrendo testi che si ponevano l'obiettivo della letterarietà liberandosi da una stretta e marcata composizione solo autobiografica e creando romanzi o racconti ove la biografia era sussunta da intrecci più ampi ed articolati. Certamente per tutti la scrittura era diventata una forma di liberazione ed una necessità per sublimare avversità, disagi che non si sarebbe mai pensato di dover sopportare.
Piccola intervista di Hannah Jonà Listieva risente della necessità di fare della scrittura lo strumento di fuoruscita dalla propria condizione di isolamento culturale più che relazionale e di cercare modi e mezzi per entrare in un circuito di rapporti meno legati solo e solamente alla dimensione della ricerca di mezzi economici per vivere e sopravvivere.
Il testo non è organizzato come un racconto autobiografico, ma a mo' di intervista. E' chiaro che non sapendo chi è colui/colei che pone domande, queste non possono che essere state confezionate in rapporto alle risposte che si volevano dare, cioè in rapporto a che cosa si voleva dire su un qualche argomento.
La forma dell'intervista, che è di moda soprattutto nel campo giornalistico e dei media televisivi ( trasmissioni che dimostrano chiaramente questa linea di tendenza), è meno seguita in campo letterario, anche perché più difficile che possa assumere la valenza letteraria.
E' quindi un atto di coraggio da parte dell'autrice averlo fatto forse anche con la consapevolezza dei rischi che correva nel limitare il numero di coloro che potevano essere incuriositi perché la società in cui viviamo ha ancora bisogno e desiderio di narrazioni, come direbbe Niki Vendola, che la faccia sognare più che di ragionamenti.
Questa "auto intervista" esprime però alcuni elementi importanti che delineano la posizione dell'autrice, ma forse anche di un immigrato che proviene dall'esperienza del regime comunista. La propaganda occidentale ha fatto dell'Europa dell'Est comunista, specialmente dell'URSS, un mondo infernale a cui si contrapponeva l'Occidente come mondo paradisiaco. Il testo di Hannah Jonà Listieva scalfisce, quasi pagina dopo pagina, questa facile credenza, non perché l'autrice si dichiari entusiasta dei regimi comunisti, anzi, ma perché riporta tutta la dimensione della vita di una persona, della sua felicità, della possibilità di una sua vita sopportabile e "decente", non alle Istituzioni politiche da cui viene gestito o dominato, ma alle relazioni che si riescono a stabilire. Sono le relazioni umane fra i singoli quelle che salvano l'uomo in qualsiasi sistema politico si trovi. Il sistema liberale occidentale non è il paradiso come il sistema comunista, ormai lontano, non era l'inferno. Il passaggio "dal comunismo al consumismo" non sempre fa fare dei salti migliorativi nella qualità della vita, qualche volta i salti sono anche peggiorativi.
Un altro aspetto che sottilmente emerge da ogni pagina è la pesante critica al sistema religioso che nella gerarchia, quella più vicina alla gente cioè i sacerdoti, non sempre riesce ad essere all'altezza dei compiti che un cristianesimo dovrebbe avere, e forse anch'essi sono rimasti un po' impreparati per l'arrivo di tanti stranieri che li ha costretti ad uscire dalla dimensione di una religione chiusa e stereotipata. Anche i preti non sono riusciti a capire il fenomeno dell'immigrazione e non sono riusciti ad assumere qualche volta la capacità di andare oltre il colore della pelle o il suono della flessione linguistica.
Infine ancora una volta emerge il fatto che la società italiana sottovaluta la preparazione culturale degli stranieri che arrivano in Italia. Non è solo la burocrazia, la norma a ignorare la capacità culturale degli stranieri, così che noi abbiamo stranieri laureati in tutte le discipline che fanno i muratori o le badanti, ma sono gli stessi italiani che fanno fatica a ipotizzare che anche in altri territori si possa studiare duramente, che anche in altri territori oltre i confini nazionali si possa diventare colti e preparati.
L'autrice nell'intervista riesce anche a prendere posizione sul campo politico, e seppure in forme delicate, a dare giudizi. Anche questo è una novità perché negli scritti della letteratura della migrazione la presa di posizione politica è sempre molto cauta, ma molto cauta.

Ottobre 2010

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