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Luoghi incerti

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Qual è il senso di uno scritto letterario? Qual è il senso della letteratura? Qual è la verità? La Letteratura è verità? Chi siamo noi? Qual è la nostra identità? Quella che viviamo, che ci dicono gli altri o quella che ci siamo appiccicati addosso come una maschera?
Qual è il grado della nostra autenticità? Siamo capaci di essere sinceri con noi o nessuno di noi lo è mai con se stesso, nella relazione con l’altro, sia anche l’altra metà della coppia?
Queste domande insistono come spade di Damocle nella testa del lettore di questo straordinario testo di Stefanie Golisch. Perché la lettura non permette un distanziamento dalle questioni che sono poste, non permette che si rimanga indifferenti.
Ma occorre procedere con ordine.
Un primo elemento che deve essere accuratamente preso in considerazione è la struttura formale dell’opera della scrittrice di origine tedesca.
E’ un romanzo? E’ un saggio? E’ un saggio-romanzo come quelli di Kundera, che organizza le sue considerazioni socio-filosofiche a partire da una storia che si dipana unitariamente da pochi personaggi? Stefanie Golisch ci offre più storie, alcune più lunghe, altre sono micro storie, che la scrittrice sente però il dovere, l’incombenza di proporre. “Di notte mi vengono a trovare i miei randagi, i miei naufraghi e naturalmente non bussano alla porta come si conviene, ma entrano come topi di fogna, dalle fessure, dai buchi della serratura, dalle finestre socchiuse. Puliscono il loro lungo pelo grigiastro, i loro vestiti luridi da tanto viaggiare, si denudano senza pudore e si siedono sul bordo del mio letto. Cominciano a cantare a squarciagola…Naturalmente non sono venuti per ringraziarmi, ma al contrario per lanciarmi pesanti accuse e insulti, Non si sono riconosciuti nelle mie storie e ora sono furiosi.”
I personaggi che lei trova per strada, che incontra nei luoghi e momenti più disparati sono numerosi. Ma è la scrittrice stessa che diventa narratrice di se stessa, dei suoi pensieri, dei rapporti con la sua famiglia, del suo essere tedesca e del pesante fardello dell’olocausto.
La molteplicità dei personaggi, la varietà delle situazioni raccontate fanno emergere anche una molteplicità di tematiche non necessariamente legate ai singoli protagonisti delle storie. Stefanie Golish descrive il suo essere persona, la sua identità, le sue certezze, i suoi sogni, le sue aspettative. E’ il tema del primo capitolo che fa da colonna portante di tutto lo scritto. L’io si denuda e mostra tutta la sua ambiguità, la sua non verità. L’io, che vorrebbe comprendere il suo passato e il suo presente, è invece nella totale incertezza, frantumato ( come il ritratto di Dora Maar di Ricasso), non conosce realmente nulla di sé. “Poco sappiamo di noi stessi e ciò che pensiamo di sapere è solo quella storia che, secondo Max Frisch, a un certo punto della propria esistenza ognuno si inventa per proteggersi contro gli spiriti maligni il cui cibo preferito sono le false identità. E’ più facile inventare la propria storia ex novo che non cercare di capire chi si è veramente”. In questo marasma con “la parola riesco a tenere insieme i fili, a controllare ciò che succede dentro e fuori di me”.
Un secondo tema fondamentale è la distanza che separa la vita comune come quella del barbone, dell’emarginato, del sofferente, da chi pensa di sapere e conoscere. Che il sole giri intorno alla terra o viceversa, che la terra sia rotonda o piatta, che la molecola dell’acqua sia fatta di idrogeno e ossigeno, ha poca importanza per la donna africana che percorre chilometri per procacciarsi il fabbisogno giornaliero di acqua come per il barbone che non è riuscito a dare un senso alla propria vita. Stefanie Golisch è solidale con le persone dalla vita semplice, comune, sofferente, che la “insultano” perché non si sono riconosciute nelle sue storie. E’ questo il cruccio reale della scrittrice: dare voce viva e concreta alla sofferenza di chi è stato ed è continuamente un perdente. Il terzo nucleo tematico è più articolato e complesso perché da un lato tratta della sua appartenenza al popolo tedesco che si è macchiato della distruzione del popolo ebreo, dall’altra del rapporto con la famiglia in cui è nata. Nel capitolo ferite la scrittrice mette a nudo tutto il dramma dell’essere tedesco, fa emergere la responsabilità di un comportamento inspiegabile, ma non del tutto elaborato. Berlino, la capitale della Germania nazista e dell’attuale non ha neppure una pietra che sia esente da colpa. Ogni via, ogni piazza ricorda l’indifferenza con cui il popolo tedesco assisteva alla sofferenza di un altro popolo colpevole solo di essere ebreo.
Il capitolo è quasi una anafora di nomi, di artisti che sono stati perseguitati, uccisi dalla repressione nazista. Potrà l’uomo tedesco riuscire a liberarsi da questa colpa? Potrà riuscire a ritornare innocente?
Sintetico ma toccante è il ricordo mitico del nonno materno comunista e morto in guerra ucciso da un soldato sovietico. I nonni paterni sono invece descritti con senso critico, a volte ironico. Essi si lagnavano di aver perso la loro heimat per colpa dei polacchi, che, dopo la guerra, si erano annessi il territorio del nord-est della Germania.
Aver dovuto andar via dalla propria terra, dalla propria casa per i nonni paterni era diventato un cruccio continuo.
In questo contesto avviene anche la descrizione della emancipazione e della maturazione della protagonista. In contrapposizione al legame dei nonni paterni e a quello del territorio di nascita lei desidera con intensità uscire fuori dal guscio della piccola città d’origine, consapevole che la maturazione della propria personalità non poteva che avvenire in altro luogo.
Singolare è la forma e l’organizzazione linguistica.
Le tante storie sono dei piccoli quadri posti uno accanto all’altro che costruiscono nell’insieme il senso del romanzo.
La lingua presenta a volte metafore illuminanti e dense.

29-08-2010

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