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Biblioteca Dergano Bovisa - 19 aprile 2012 terzo incontro


Cosmogonia cinese
(tradotto da Dan Shen)
盘古开天地

Tanto, tanto tempo fa, il mondo non esisteva ancora. L’universo era un ambiente buio con l’aria calda come l’interno di un uovo e non si capiva se era giorno o notte, né si aveva alcun punto di riferimento. Dentro quest’ uovo è stato concepito un eroe: Pan Gu. Dopo 18.000 anni, l’eroe aprì gli occhi ma non vide niente. Per di più l’aria pesante lo faceva sentire male. Pan Gu fu arrabbiato. Toccando attorno a sé, trovò un’ascia. Lui prese l’ascia e diede un colpo fortissimo nel buio. Sentì un gran rumore: l’uovo era stato rotto. Le cose leggere e chiare volarono in alto e diventarono il cielo, mentre le cose pesanti e scure scesero  giù e diventarono la terra.
Nonostante fosse soddisfatto del proprio lavoro, Pan Gu si preoccupò che il cielo e la terra potessero riunirsi di nuovo. Quindi si mise tra il cielo e la terra e li divise con il suo corpo; con la potenza da eroe allungò il suo corpo di 30 metri al giorno. Così il cielo fu sempre più lontano dalla terra. Dopo più di centomila anni, sapendo che il cielo e la terra erano separati definitivamente, Pan Gu lasciò andare il suo corpo esaurito e morì. Ma nel momento in cui morì, il suo occhio sinistro diventò il sole mentre il destro, la luna. Il suo ultimo respiro diventò i venti e le nuvole e l’ultimo suo grido, i tuoni. I suoi capelli e la barba, la via lattea; la testa, le montagne; 4 membra, i quattro punti cardinali; il sangue, i fiumi e i laghi; i tendini e le vene, le strade e sentieri; i muscoli, la campagna; i peli, le piante e gli alberi; le ossa e i denti, miniere e pietre preziose; il suo sudore, la pioggia e la rugiada. E da quel momento, il mondo fu costruito.
        


Oggi



-    Dal narrare lo spazio attraversato dal TEMPO (a)
-    al narrare lo spazio attraversato dal CONFLITTO (b)
-    ovvero gli ingredienti (presenti o nascosti) di ogni trama, di ogni racconto:  
-    (a) DOVE-COME-QUANDO e
-    (b) CHI-COME-PERCHE’
-    a) Disporre i fatti lungo un asse temporale (prima-dopo), trovare una linea, una coerenza. Notare un mutamento
-    “C’era una volta un re e una regina che avevano un bambino” è meno narrativo di “C’era una volta un re e una regina che avevano un bambino ammalato” (come-quando si è ammalato? Guarirà? come-quando?)

-    L’ordine cronologico non basta (anche le ricette e il foglio di istruzioni per montare i mobili Ikea ce l’hanno)
-    b) Collocare i fatti in un campo di forze. Notare una tensione. Squilibri. Chiamiamolo conflitto. Non solo la linea dei fatti, ma le mosse di una partita sulla scacchiera. Fondamentali i personaggi, le scelte, i contrasti, le relazioni (vedi prossimo incontro con Monteiro)
-    “Il gatto si distese sullo stoino” è meno “narrativo” di “Il gatto si distese sullo stoino del cane”

-    Partiamo dagli esercizi svolti. Qual è la trama prevalente? Su suggerimento dell’incontro precedente, naturalmente è il passare del tempo (a), ma ci sono già elementi di conflitto (b).


Il passare del tempo

 

Quali trame. Prevalgono le storie tristi, la nostalgia, il pessimismo

                                                       Trame basate soprattutto sul tempo
    Situazione positiva   (+)                       Passare del tempo              
        Peggioramento (-)                   
   
     
  Molto meno frequente,
 oggi
 
     
Situazione negativa (-) Passare del tempo come evoluzione Situazione positiva (+)
Storie a lieto fine
Storie senza lieto fine: contro il passare del tempo non si può fare nulla
Nell’Ottocento, invece, il passare del tempo era visto soprattutto come progresso, evoluzione…

1 il tempo autobiografico
 -    il racconto autobiografico
-    io (un oggetto mio, casa mia…) ieri  /  oggi. Storie dove c’è un confronto (un conflitto tra il tempo di una volta e quello di adesso)
-    io (un oggetto mio, casa mia…) ieri Storie dove c’è solo un tuffo nel passato



Lei è morta a mezzogiorno. Non è una morte improvvisa ; l’aspettiamo da giorni. Eppure non è stato preparato nulla per vestirla.

La mia mano si immerge nel cassetto dei golf e pesca un gilet nero a piccoli fiori rossi.
E’ un caldo oggetto che viene dal passato, dal maglificio in cui lei ha lavorato sessanta anni fa.
Come in un triste gioco dell’oca si torna al “via” e si chiude così il cerchio di una lunga vita.

Marisa Gaggini
Lei è morta a mezzogiorno. Non è una morte improvvisa ; l’aspettiamo da giorni. Eppure non è stato preparato nulla per vestirla.
La mia mano si immerge nel cassetto dei golf e pesca un gilet nero a piccoli fiori rossi.
L’oggetto emerge dal passato, dal maglificio in cui lei ha lavorato sessanta anni fa.
Così si chiude il lungo cerchio di una vita. Si torna al “via”, come in un triste gioco dell’oca.

   

-    Prima (madre, golf) / Dopo (madre, golf)


Sauro Sorana
Esercizio 12

Lascio, ma un ultimo sguardo va sulla credenza,  con il suo ripiano di marmo freddo, che ricorda le lapidi dei cimiteri anglosassoni. Sopra un portagioie di finto argento, con le gambette a forma di zampa di leone. Conteneva tutti gli averi di mia nonna, passati per diritto a mia madre: poca roba ma di gran valore simbolico. Non ho mai capito perché tenessero quel contenitore vicino a bottiglie di vino, al tagliere del pane e al vaso della frutta, forse era per tenerle vicino a sé, in un luogo dove passavano la gran parte della giornata.
Quella vista mi era così familiare, mi aveva accompagnato per tanti anni della mia vita. Il pensiero di non rivederla per tanto tempo, un po’ mi dava tristezza. Ma dovevo devo partire, rimarrà impresso nella mia memoria, porterò il ricordo con me. Porterò il ricordo con me. Nella mia memoria.
Fiorella Pirola




Una lampada per terra in una stanza vuota,all’inizio di una nuova vita.
Una lampada, la stessa, per terra in una stanza vuota alla fine di quella nuova vita:
Un arco di tempo in cui è successo tutto; di  ciò che è stato vissuto, resta forte il ricordo di quella lampada che illuminava una grande speranza    
 Di  ciò che è stato vissuto, resta il ricordo di quella lampada che illuminava una grande speranza

Una lampada per terra in una stanza vuota,all’inizio di una nuova vita.

Una lampada, la stessa, per terra in una stanza vuot, aalla fine di quella vita.
Di  ciò che è stato vissuto, resta il ricordo di quella lampada che illuminava una grande speranza
Quattro donne allegre, sorridenti, in buffe pose..sullo sfondo una spiaggia fuori stagione ed un bimbo sfuocato sullo sfondo.
Quattro amiche, legate da anni da un forte sodalizio, da una complicità profonda, quattro persone diverse per carattere, per modi di affrontare la vita, per vicende personali, ma nella mente un solo obiettivo, un solo credo,lo stesso impegno,la medesima folle speranza di un mondo migliore. Sono passati molti anni, ma le quattro amiche sono ancora lì a lottare e sperare e a ringraziare di essersi trovate.
Nella foto si vedono quattro donne. Sono allegre, sorridenti, in buffe pose… sullo sfondo una spiaggia fuori stagione ed un bimbo, sfuocato.
Sono quattro amiche, legate da anni da un forte sodalizio, da una complicità profonda, quattro persone diverse per carattere, per modi di affrontare la vita, per vicende personali, ma nella mente  la medesima folle speranza di un mondo migliore. Sono passati molti anni, ma le quattro amiche sono ancora lì a lottare e sperare e, mentre guardano insieme quella foto, a ringraziare di essersi ritrovate.



Abitavo nella casa dove ero nata, in un paese vicino a Milano. Nel nostro cortile davanti a casa c’erano l’orto, il pollaio e un vialetto dove spesso mio padre camminava con me tenendomi per mano e mostrandomi i fiori e gli animali.

Io avevo un mio posto privilegiato, dietro alla casa, dove mi lasciavano andare e dove spesso mi rifugiavo.
C’era un alto pino ombroso i cui rami toccavano la parete della casa, c’era un vialetto e il resto era prato con tanti aghi di pino. Lì, tra l’ombra e i raggi di sole che si infiltravano tra i rami, stavo ore ed ore a guardare una lunga fila di animaletti che dal tronco del pino scendevano ordinatamente e salivano, sempre in fila indiana, sul muro della casa. Salivano e scendevano formando un’altra fila ordinata. Andata e ritorno.
Uno dietro l’altro zampettavano veloci e io guardavo e riguardavo. Mi piacevano. Ogni tanto mettevo un sassetto o una briciola di pane per interrompere l’andirivieni.
La fila si rompeva, si agitavano, chi correva avanti, chi correva indietro, qualcuno riusciva a recuperare bricioline di pane e subito si rimetteva in fila nella direzione giusta. Io stavo lì e guardavo le mie formichine, appagata dal loro movimento ordinato. Avevo quattro anni circa.


Peppa Silicati
Abitavo nella casa dove ero nata, in un paese vicino a Milano. Nel nostro cortile davanti a casa c’erano l’orto, il pollaio e un vialetto, dove spesso mio padre camminava con me.  Mi teneva per mano e con l’altra indicava fiori e animali.
Io avevo un mio posto privilegiato, dietro alla casa, dove mi lasciavano andare e dove spesso mi rifugiavo.
C’era un alto pino ombroso i cui rami toccavano la parete della casa, c’era un vialetto e il resto era prato, con tanti aghi di pino. Lì, tra l’ombra e i raggi di sole che si infiltravano tra i rami, stavo ore ed ore a guardare una lunga fila di animaletti che dal tronco del pino scendevano ordinatamente e salivano, sempre in fila indiana, sul muro della casa. Salivano e scendevano formando un’altra fila ordinata. Andata e ritorno.
Uno dietro l’altro zampettavano veloci e io guardavo e riguardavo. Mi piacevano. Ogni tanto mettevo un sassetto o una briciola di pane per interrompere l’andirivieni.
La fila si rompeva, tutti si agitavano, chi correva avanti, chi indietro, qualcuno riusciva a recuperare bricioline di pane e subito si rimetteva in fila nella direzione giusta. Io stavo lì e guardavo le mie formichine, appagata dal loro movimento ordinato. Avrò avuto quattro anni.


 
Andrea Puddu

Torni spesso nei miei sogni. Come se fossi sempre presente in me, eppure più non ti appartengo. Quelle rare volte che passo sotto la mia vecchia casa, sento il trascorrere del tempo in un semplice attimo. Alla naturale nostalgia si affianca pian piano indifferenza. Non solo da parte mia, ma anche dalla tua: come se tu avessi un’anima. Un’anima da me plasmata e donata, ora diventata grande con scelte compiute, diverse dalle mie, e dove ineluttabile si smarrisce il ricordo. Ma davvero è così?
Fisso il balcone pendente, lì al primo piano, dove mi affacciavo e scrutavo il mondo, e una marea di pensieri e ricordi mi assalee pensieri e ricordi mi assalgono.Subito mi chiedo: Ora chi ci vivrà? Chi ci abita può percepire i miei trascorsi? Ci sarà ancora il parquet con le tavolette in legno che si staccano e che io e mia sorella usavamo per giocare? Chissà com’è camera mia e lo sguardo la vista dalla finestra verso il cortile con i suoi box, e poi oltre il muro quel convento e la chioma dei suoi alberi, nel giardino che ho sempre solo immaginato, e ancora più in là gli ignoti palazzi distanti. Oggi ancora più distanti. A chi appartiene questo sguardo ora?
La pace del mio cortile al tramonto, il suono lontano delle campane, il rumore del vecchio tram, il 23, che al mattino annunciava l’inizio della giornata.
Il ricordo della domenica, dopo aver fatto il bagno, asciugandosi i capelli e ascoltando Lucio Battisti, con lo stereo dentro il vecchio mobiletto in legno, di fianco al divano a righe rosa bianche e viola. E tanto altro ancora…
Ma i miei pensieri s’interrompono all’improvviso. Devo tornare a casa che è tardi. Riguardo velocemente la casa della mia infanzia e adolescenza e mi accorgo che è proprio brutta. Tutta e solo grigia. Anonima. Certo non ci abito più, né io né la mia famiglia.

2. il tempo sociale
 

Sauro Sorana

Lo spazio segnato dal tempo
A passarci tutte le mattine uno non si accorge, ma un giorno, forse diverso dagli altri, lo sguardo mi cadde su quel muro vecchio e scrostato. Un colore rosso sbiadito a forma di macchia irregolare, più di una, segnato da macchie irregolari, erano le chiare tracce di un passato.
Che c'era dietro quel muro? E che relazione poteva avere quel colore con il posto?
Guardandomi intorno per assicurarmi che nessuno mi avrebbe visto, mi arrampicai fino a sbucare con lo sguardo oltre il muro.
Oltre le prime sterpaglie, alcuni bidoni arrugginiti, contenitori di chissà quale sostanza. Tra la ruggine, anche lì qualche macchia di colore rosso, verde, giallo, azzurro …
Guardai oltre, vidi sdraiata a terra come se fosse stanca una insegna di altri tempi. , … COLORIFICIO BERETTA. una insegna. I caratteri di altri tempi portavano scritto COLORIFICIO BERETTA




La ribalta del capannone di mio padre ormai abbandonato. Su quella ribalta rivedo me,una bambina giocare con i bidoni di legno di balsa dai quali uscivano polveri colorate, il sole che filtrava dalla finestrella le trasformava in allegri arcobaleni  ed io ridevo. Ora fermo lo sguardo ed  un particolare mi salta subito agli occhi: su quei bidoncini allegri e leggeri era stampato un nome “ACNA”: fabbricava morte ed io ci giocavo spensierata.


Fiorella Pirola
La ribalta del capannone di mio padre, ormai abbandonato. Su quella ribalta rivedo me bambina giocare con i bidoni di legno di balsa dai quali uscivano polveri colorate. Il sole che filtrava dalla finestrella le trasformava in allegri arcobaleni  ed io ridevo. Ora, nel ricordo, fermo lo sguardo su  un particolare: su quei bidoncici allegri e leggeri era stampato un nome “ACNA”: fabbricavano morte ed io ci giocavo spensierata.



Dalla finestra di casa Mariuccia, osservavo spesso il muro di cinta della “FAMO”, fatto di mattoni rossi e intonaco scrostato. Oltre questo confine un grande spiazzo deserto.

Uomini entravano e uscivano un tempo lavoratori, con passo lento dai cancelli, in seguito abitanti clandestini, frettolosamente attraverso brecce nascoste dalle sterpaglie alla base del muro.
Ora la ditta e demolita, rasa al suolo e il muro di cinta abbattuto.
Giovanna del Grande
Dalla finestra di casa Mariuccia, osservavo spesso il muro di cinta della “FAMO”, fatto di mattoni rossi e intonaco scrostato. Oltre questo confine un grande spiazzo deserto.
Uomini entravano e uscivano. Un tempo lavoratori, con passo lento, dai cancelli; in seguito abitanti clandestini, frettolosamente, attraverso brecce nascoste dalle sterpaglie alla base del muro.
Ora la ditta è demolita, rasa al suolo e il muro di cinta abbattuto. [da completare questa frase]


-    a) Muro. Passare del tempo. b) muro e operai, c) muro e immigrati, d) muro e…


In giro con gli studenti  a leggere e fotografare i muri del quartiere : lapidi, scritte, graffiti …

Più  di tutto li colpisce la ciminiera della SIRIO, alta e solitaria sul presto incolto dove sorgeva la fabbrica di saponi. Tanti scatti, tante domande.
La mattina dopo Hu Dong, lo studente cinese che abita al di là della stazione Nord, entra in classe urlando nel suo italiano ancora approssimativo“ La cementiera non c’è più!”
E’ vero; nonostante i tentativi del quartiere per conservarla è stata abbattuta durante la notte .
Così la nostra foto della vecchia ciminiera smette di essere un’immagine di oggi  e diventa di colpo un documento del passato

Marisa Gaggini
In giro con gli studenti  a leggere e fotografare i muri del quartiere : lapidi, scritte, graffiti …
Più  di tutto li colpisce la ciminiera della SIRIO, alta e solitaria sul prato incolto, dove sorgeva la fabbrica di saponi. Tanti scatti, tante domande.
La mattina dopo Hu Dong, lo studente cinese che abita al di là della stazione Nord, entra in classe urlando nel suo italiano ancora approssimativo“ La cementiera non c’è più!”
E’ vero; nonostante i tentativi del quartiere per conservarla, è stata abbattuta durante la notte.
Così la nostra foto della vecchia ciminiera smette di essere un’immagine di oggi  e diventa di colpo un documento del passato


-    Prima (ciminiera foto) / dopo (ciminiera foto), Ciminiera: foto = assenza di ciminiera: foto (cambio di significato)
-    In entrambi i casi: cambiamenti in parallelo


Un luogo. 1960. Dalla provincia con il treno ci viene a lavorare mia madre, prima della mia nascita. 2001. Ci arrivo io, non molto convinta di trasferirmi a vivere in città. Il campo si stringe. Una via. 2002. La fabbrica o il deposito, non so, delle scenografie del Piccolo. Già dismessa, ma sede di uno spettacolo che mi conquista. 2004. La fabbrica diventa la casa temporanea di molte persone sbarcate in Italia con un po' di speranze.  M. mi dice che ha passato un mese lì, appena arrivato in Italia. R., che lavora di fronte, mi racconta di quando passano dal suo negozio e lui da loro qualcosa da mangiare. E mi racconta anche delle brave cristiane che invece si sbracciano, quando arrivano i vigili per sgomberare gli abusivi, dicendo: sono lì, sono lì! 2012. Non c'è più nulla. La fabbrica è stata abbattuta. Le persone sono migrate altrove. Non necessariamente molto lontano. Ci sono ancora le brave cristiane. Ma non fanno parte del mio mondo. Io cammino sicura in un quartiere arcobaleno.


Manuela Ronchi

1960. Alla Bovisa ci viene a lavorare mia madre, prima della mia nascita. Arriva dalla provincia, con il treno. Quarant’anni dopo ci arrivo io, non molto convinta di trasferirmi a vivere in città.

Ora il campo dei ricordi si restringe: siamo in una via, o meglio, in una fabbrica o in un deposito delle scenografie del Piccolo, non so. Nei capannoni, dismessi, si rappresenta  uno spettacolo, che mi conquista. E’ il 2002. Due anni dopo, la fabbrica diventa la casa temporanea di molte persone sbarcate in Italia con un po' di speranze.  M. mi dice che ha passato un mese lì, appena arrivato in Italia. R., che lavora di fronte, mi racconta di quando passano dal suo negozio e lui dà loro qualcosa da mangiare. E mi racconta anche delle brave cristiane che invece si sbracciano, quando arrivano i vigili per sgomberare gli abusivi, dicendo: sono lì, sono lì! Adesso non c'è più nulla. La fabbrica è stata abbattuta. Le persone sono migrate altrove. Non credo molto lontano. Ci sono ancora le brave cristiane. Ma non fanno parte del mio mondo. Io cammino sicura in un quartiere arcobaleno.


Un luogo. 1960. 1960. Alla Bovisa ci viene a lavorare mia madre, prima della mia nascita. Arriva dalla provincia, con il treno. 2001. Ci arrivo io, non molto convinta di trasferirmi a vivere in città. Il campo si restringe. Una via. 2002. La fabbrica o il deposito, non so, delle scenografie del Piccolo. Già dismessa, ma sede di uno spettacolo che mi conquista. 2004. La fabbrica diventa la casa temporanea di molte persone sbarcate in Italia con un po' di speranze.  M. mi dice che ha passato un mese lì, appena arrivato in Italia. R., che lavora di fronte, mi racconta di quando passano dal suo negozio e lui da loro qualcosa da mangiare. E mi racconta anche delle brave cristiane che invece si sbracciano, quando arrivano i vigili per sgomberare gli abusivi, dicendo: sono lì, sono lì! 2012. Non c'è più nulla. La fabbrica è stata abbattuta. Le persone sono migrate altrove. Non credo molto lontano. Ci sono ancora le brave cristiane. Ma non fanno parte del mio mondo. Io cammino sicura in un quartiere arcobaleno.

Manuela Ronchi
-    Prima / dopo (tempo),
-    ma anche io / brave cristiane (conflitto)


divagazione sulla punteggiatura

 
“Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto” Babel, Racconti completi, citato da Carver in id. Il mestiere di scrivere, Torino, Einaudi, 1997, p.73



3 Presenza nelle trame del conflitto

 
ESERCIZIO 1
 

Il fumo saliva lento dalla sigaretta appena accesa e sembrava svanire fra le fessure del muro diroccato come a seguire una traccia. Tutto era confuso nella nebbia: capannoni, cortili e marciapiedi umidi ancora dell’alba autunnale. Mi ero perso. Avevo lasciato la casa di fianco alla ferrovia da pochi minuti e già il mio percorso sembrava finito. La stazione di Bovisa si impossessava di me con la sua ombra minacciosa ed informe, le ragnatele sui fianchi del muro segnavano un tempo indefinibile e inquieto. Lontananze minacciose e nascoste mi erano apparse ad un tratto e sembrava che tutto si fosse ppoi fuso in un’unica magica alchimia di mistero impreciso e profondo. Dov’eri Milano dei miei occhi e del mio respiro? Chi ti aveva portato lontano da me?


Pierre
 Il fumo saliva lento dalla sigaretta appena accesa e sembrava svanire fra le fessure del muro diroccato, come a seguire una traccia. Tutto era confuso nella nebbia: capannoni, cortili e marciapiedi, ancora umidi dell’alba autunnale. Mi ero perso. Avevo lasciato la casa di fianco alla ferrovia da pochi minuti e già il mio percorso sembrava finito. La stazione di Bovisa si impossessava di me con la sua ombra minacciosa ed informe, le ragnatele sui fianchi del muro segnavano un tempo indefinibile e inquieto. Lontananze minacciose e nascoste mi erano apparse ad un tratto e sembrava che tutto si fosse poi fuso in un’unica magica alchimia di mistero, impreciso e profondo. Dov’eri Milano dei miei occhi e del mio respiro? Chi ti aveva portato lontano da me?

ESERCIZIO 4

 

Pesava lo zaino, accidenti come pesava, ma dentro c’era mezza mia vita. Ho lasciato Biserta  ormai da due mesi e ancora non riesco a trovare qui un pezzetto di Tunisia, la mia terra, la mia cara ed amara terra dove sono nato e che mi ha lasciato andare via senza un abbraccio o un rimorso. Sono qui fra queste pareti sudice e nere, queste finestre senza vetro e sotto un tetto dove piove tutta la rabbia di questa città fredda e incolore che si chiama Milano e per me si chiama dolore. C’è tutta la mia vita nello zaino: vestiti, coltelli, saponi e ritratti. Ritratti di gente che forse non rivedrò più, ma che per adesso mi fanno compagnia e parlano a me ogni notte che vivo qui dentro, senza dormire. Casa abbandonata e vita abbandonata. Dove sei sole del sud così caldo e felice? Riusciremo a trovarci di nuovo nel tempo? Inchallah, mia vita, Inchallah!
Pierre

ESERCIZIO 5


Stavo affondando. La costa era ormai così lontana che non riuscivo quasi più a vederla. Il mio destino era segnato.  Il gommone si era afflosciato come un fiore reciso e sarebbe rimasto a galla solo qualche minuto ancora, poi sarebbe affondato con me senza più tornare a galla. Con l’acqua negli occhi, nelle orecchie ed in gola non sapevo nemmeno più lottare fra le onde  e le correnti per riuscire a salvarmi. E mi faceva rabbia vedere in quel cielo più azzurro che mai due nuvole giocare fra loro a perdersi e trovarsi con mille forme e colori diversi a ogni nuova rincorsa. La prima era un cavallo diventato farfalla e stava piegando verso est, la seconda era una mano gigante che stava perdendo forma e colore per diventare una rondine o chissà cosa. E io stupito e incantato come un bambino che vede per la prima volta le nuvole, sorridevo a queste fantasie da poeta e mi convincevo sempre più del mistero immenso e segreto che circonda ed abbraccia tutto il nostro mondo creato, mentre intanto andavo sempre più giù. E le nuvole si prendevano gioco di me e mentre le guardavo continuavano la loro esibizione nel cielo. Ed avrebbero continuato anche quando i miei occhi non avrebbero più potuto vederle, perché la loro vita era sempre più distante e indifferente della mia che stava per finire.
Pierre


Es. 12
La zagara
Il mio rametto di  fiori di zagara  è lì, dentro una busta bianca che  ho  usato come  segnalibro.
Pensavo che mi creassero problemi in aeroporto, (ultimamente sono così fiscali !), invece, tutto bene, è passato.
L’aereo che mi porta lontano dalle mie radici è partito. Dal finestrino  guardo  la costa con le case che man mano si rimpiccioliscono e proprio sotto di noi, il mare blu cobalto, poi, solo nuvole.
Apro la busta,chiudo gli occhi e annuso. Il suo intenso e dolce profumo mi travolge, arriva al cuore, allo stomaco, fino alle dita dei piedi.
Sì, proprio così, sempre. Il profumo unico della mia terra è dentro le mie narici e lì rimane, il cuore è sempre spezzato in due, lo stomaco mi si chiude in una morsa, ma i miei piedi continuano ad andare verso il futuro.
Sempre però con tutte le mie membra  trasudanti di zagara
Stefania
Es. 12
La zagara
Il mio rametto di  fiori di zagara  è lì, dentro una busta bianca che  ho  usato come  segnalibro.
Pensavo che mi creassero problemi in aeroporto (ultimamente sono così fiscali). Invece, tutto bene, è passato.
L’aereo che mi porta lontano dalle mie radici è partito. Dal finestrino  guardo  la costa con le case che man mano si rimpiccioliscono e proprio sotto di noi, il mare blu cobalto. Poi, solo nuvole.
Apro la busta,chiudo gli occhi e annuso. Il suo intenso, dolce profumo mi travolge. Arriva al cuore, allo stomaco, fino alle dita dei piedi.
Sì, proprio così, sempre. Il profumo, unico, della mia terra è dentro le mie narici e lì rimane. Il cuore è sempre spezzato in due, lo stomaco mi si chiude in una morsa, ma i miei piedi continuano ad andare verso il futuro. Sempre.
Con tutte le mie membra  trasudanti di zagara.

 Stefania
                                                                                 
 




















                                                                          

- Conflitto Nord - l’identità – Sud. La zagara di Stefania come lo zaino di Pierre

IL POLLAIO            es. n°18
Uno sgabuzzino di vecchie assi per pareti, un tetto di lamiera arrugginita, un buco per finestra, un’ anta cigolante come porta: ecco, era questo il mio adorato pollaio.
Per la mia famiglia e per gli amici che si recavano in campagna, la baracchetta, lontana dalla casa, era il luogo del puzzo fetido, nauseabondo, degli escrementi sotto le suole delle scarpe, della paura che il gallo ti beccasse.
Per me era invece il castello fatato, luogo di mistero e di meraviglie.  
Chissà  cosa troverò oggi, ci saranno uova? E quante? I pulcini saranno nati? Sono tutti gialli?
Appena varcata la soglia, l’odore che mi avvolgeva era violento, aspro, acido, ma anche forte, inebriante, sembrava volesse dirmi: ”Sono io l’unico e prepotente padrone di  casa!”

 
-    Famigliari ↔ Pollaio ↔ io

però
 
Oggi le storie più comuni basate sul conflitto hanno un percorso inverso alle storie basate sul tempo

Trame basate sul conflitto
Danno (-) Avventura, rosa… Soluzione (+)
Conflitto, lotta tra un
personaggio
positivo e uno negativo
Storie drammatiche
Situazione positiva (+) Peggioramento (-)



ESERCIZIO 1


-    1) Pensiamo alla trama di uno spot pubblicitario (papà e figlio sono in auto→ incomincia a piovere → pericolo → interviene l’omino delle gomme → tutto risolto. “I nostri amici erano con la barca in panne” → il concerto è a rischio → arriva il motoscafo che li aiuta → il concerto è salvo…) e facciamone una parodia (una presa in giro mantenendo la trama, ma ambientandola magari in Bovisa)



ESERCIZIO   2, 3, 4, 5
 
-    2) Pensiamo alla trama di uno spot pubblicitario e incominciamo a “sporcare” la storia, a renderla più complessa…

ESERCIZIO 3
-    3) Pensiamo a una situazione conflittuale: qualcuno che a qualcuno potrebbe dare fastidio (dal punto di vista dei ruoli sociali, un suonatore in metropolitana,  un lavavetri a un semaforo, un venditore insistente di rose…) o mettere a disagio (un uomo politico che detestiamo) e collochiamolo in una situazione narrativa, come una pedina in una scacchiera. Come si comporteranno gli altri personaggi?
-    4) Pensiamo a una figura generalmente considerata negativamente (un evasore fiscale, un uomo corrotto…) e proviamo a raccontare la “sua” storia”, il “suo” conflitto, i “suoi” antagonisti, senza ironia, provando ad immedesimarci nei suoi panni. Forse faremo emergere altri indegni personaggi, forse potremo capire, senza  condannare e senza giustificare, la rete, la logica del malaffare. Ricordiamoci che il nostro ambiente virtuale è la Bovisa
-    5) Pensiamo a una relazione squilibrata, implicitamente conflittuale tra soggetti, come c’è spesso in un rapporto di lavoro che non ha ancora assunto le sue giuste regole, dove i ruoli sono confusi, le competenze non valorizzate, le persone sottovalutate o sottostimate a causa di pregiudizi e delle leggi della società accogliente (come nel rapporto tra malato, famigliari e badante, ad esempio, o tra capo cantiere e operaio laureato straniero…) e proviamo a mescolare le carte, i valori, i ruoli…


Per questa operazione
-    Fondamentali i personaggi (vedi prossima lezione di Monteiro), che sono i responsabili dei cambiamenti sociali e che, a differenza del tempo, hanno delle qualità, positive o negative

soggetti



antagonisti
X



Y
valori valori
+ - + -
lei lei
lui lui
operai operai
padroni padroni
adulti adulti
giovani giovani
Cultura A Cultura A
Cultura B Cultura B
...
                  
Storia banale
soggetti



antagonisti
valori                 valori
+ -    -    
X + - Y

 

Storia interessante (assumere il punto di vista dell’altro)
soggetti



antagonisti
valori valori
+ -      + -       
X + - Y

 


Storia interessante (capovolgere o mischiare i valori)
soggetti



antagonisti
valori valori
+ - + -
X - - Y
X + + Y
X - + Y
...
                  
Esercizio 6


-    6) Il conflitto (civiltà / natura, adulto / bambino)  può anche essere riappacificato, trovare un superamento, una mediazione. Diventare una ricchezza. Riusciamo a raccontare una storia in proposito?

Esempi già svolti dai partecipanti al corso


Tutti i giorni attraverso il giardino condominiale che circonda la mia abitazione come un percorso obbligato per uscire dal mio guscio, senza mai indugiare sulla bellezza naturale di questo minuscolo paesaggio. Ieri pomeriggio con la mia nipotina Martina l'abbiamo scoperto come il mondo in cui potevamo essere felici lasciando libera tutta la nostra fantasia. Abbiamo cominciato con il fare le bolle di sapone che seguivamo con il naso all'insù indicandone col dito la loro direzione. Abbiamo poi deciso di fotografare questo cielo surreale disegnato da tanti palloncini variopinti che si libravano in aria. Il nostro sguardo dal cielo si è posato sul tappeto di margherite ai nostri piedi. Così abbiamo riempito una vaso di terra e abbiamo trapiantato tre piantine di questo fiore per farne un giardino in miniatura da mettere sul nostro balcone. Invase da un'enorme gioia abbiamo fatto il gioco di chi ridendo riusciva a far ridere l'altra. La risata da giocosa è diventata spontanea e contagiosa al punto di non riuscire più a trattenerla. Abbiamo concluso la giornata contendendoci il primato di chi si sentisse più felice: per Martina era lei la vincitrice. Su un immaginabile podio, se Martina era al posto più alto io ero al settimo cielo.

Angela Colombo
Tutti i giorni attraverso il giardino condominiale che circonda la mia abitazione come un percorso obbligato per uscire dal mio guscio. Non ho mai indugiato sulla bellezza naturale di questo minuscolo paesaggio. Fino a ieri pomeriggio, quando, con la mia nipotina Martina, è diventato il mondo in cui siamo state felici. Abbiamo cominciato con il fare le bolle di sapone che seguivamo con il naso all'insù, indicandone col dito la direzione. Abbiamo poi  fotografato il cielo, disegnato da quei palloncini variopinti che si libravano in aria. Il nostro sguardo dal cielo si è posato sul tappeto di margherite, ai nostri piedi. Così abbiamo riempito una vaso di terra e abbiamo trapiantato tre piantine, per farne un giardino in miniatura da mettere sul nostro balcone. La gioia cresceva dentro di noi e abbiamo fatto il gioco di chi, ridendo, riusciva a far ridere l'altra. La risata da giocosa è diventata spontanea e contagiosa, al punto di non riuscire più a trattenerla. A fine giornata ci siamo contese il primato di chi si sentisse più felice: per Martina era lei la vincitrice. Su un immaginabile podio, se Martina era al posto più alto io ero al settimo cielo.




Mi disse che l'appuntamento era alle quattro. Avevo scritto l'indirizzo su un pezzo di carta e continuavo a stringerlo anche mentre camminavo a passo svelto. L'altra mano era aggrappata all'ombrello. Cercavo di ripercorrere mentalmente la strada da fare per raggiungere la villetta nel più breve tempo possibile ma la città mi distraeva. Quel bambino osservava da vicino la foglia che aveva raccolto da un cespuglio mentre la mamma sussurrava al telefono guardando da un'altra parte. La ragazza con i denti di perla rideva con uno stupido sibilo stridulo, ma era davvero bellissima. E la nonnina che aspettava accanto a me che il semaforo diventasse rosso borbottava e borbottava, con la testa china, la mano tremante sul bastone di legno. La mia invece era ferma e stringeva l'ombrello. Nell'altra, il pezzo di carta stropicciato mi ricordava che dovevo far presto.


II numero 65 era dall'altro lato della strada. Mentre attraversavo in obliquo, lentamente – non c'erano macchine e non c'era più fretta, ormai ero in orario – cercavo di indovinare quale fosse la villetta che cercavo. La natura fa cose meravigliose, pensavo. Quella casa abbandonata sembrava vivere di vita propria, tanti erano i rampicanti che la avvolgevano. Come il bambino, la ragazza e la vecchia. Come me. Se mi fossi avvicinata abbastanza, ne ero sicura, avrei sentito che respirava, o forse cantava. Numero 63. Quella che cercavo era al numero successivo.

Quando, qualche minuto dopo, il mio datore di lavoro mi disse che c'era stato un imprevisto e che si doveva rimandare l’incontro, quando notai che non mi guardava ma faceva zapping con il suo grosso telecomando grigio, lì e solo lì capii che quei rampicanti avevano ragione. E' molto meglio avvolgere con un abbraccio qualcosa che resiste e vive nonostante il tempo che passa, più che logorarsi l’anima per inseguire un nulla.

Gioia Panzarella
Mi disse che l'appuntamento era alle quattro. Avevo scritto l'indirizzo su un pezzo di carta e continuavo a stringerlo, anche mentre camminavo a passo svelto. L'altra mano era aggrappata all'ombrello. Cercavo di ripercorrere mentalmente la strada da fare per raggiungere la villetta nel più breve tempo possibile ma la città mi distraeva. Quel bambino osservava da vicino la foglia che aveva raccolto da un cespuglio, mentre la mamma sussurrava al telefono guardando da un'altra parte. La ragazza con i denti di perla rideva con uno stupido sibilo stridulo, ma era davvero bellissima. E la nonnina che aspettava accanto a me che il semaforo diventasse rosso borbottava e borbottava, con la testa china, la mano tremante sul bastone di legno. La mia invece era ferma e stringeva l'ombrello. Nell'altra, il pezzo di carta stropicciato mi ricordava che dovevo far presto.

II numero 65 era dall'altro lato della strada. Mentre attraversavo in obliquo, lentamente – non c'erano macchine e non c'era più fretta, ormai ero in orario – cercavo di indovinare quale fosse la villetta che cercavo. La natura fa cose meravigliose, pensavo. Quella casa abbandonata sembrava vivere di vita propria, tanti erano i rampicanti che la avvolgevano. Viveva. Come il bambino, la ragazza e la vecchia. Come me. Se mi fossi avvicinata abbastanza, ne ero sicura, l’avrei sentita respirare, o forse cantare. Numero 63. Quella che cercavo era al numero successivo.

Quando, qualche minuto dopo, il mio datore di lavoro mi disse che c'era stato un imprevisto e che si doveva rimandare l’incontro, quando notai che non mi guardava ma faceva zapping con il suo grosso telecomando grigio, lì e solo lì capii che quei rampicanti avevano ragione. E' molto meglio avvolgere con un abbraccio qualcosa che resiste e vive nonostante il tempo che passa, più che logorarsi l’anima per inseguire un nulla.

Esercizio 7                         
   
-    7) Il conflitto può anche essere preso in giro, esasperando in modo caricaturale gli aspetti negativi

Esempi già svolti dai partecipanti al corso

Esempio di racconto satirico

Es.10)            anno 2582
Anno 2582
ore 7,10 - La voce calda e suadente di “svegliator”
 mi chiama dolcemente,
 mentre la  piccola stanza si illumina di una luce
 man mano sempre più vivida e sulle pareti cominciano a
scorrere le immagini della bella spiaggia dei Caraibi
 (quella famosa con le palme) che ho selezionato ieri sera,
 prima di andare a letto.

Ok, un altro giorno ha inizio.
ore 7,20 - Tolgo la tuta-riposo;  devo dire che questa
 tuta è molto più comoda della precedente,
mi infilo dentro, mi solleva immediatamente e
 con il suo leggero fluttuare, concilia magnificamente
il mio sonno. Fantastica!

Nell’angolo bagno mi infilo il pantalone –wc – riciclo
 per i miei bisogni corporali, ok, fatto anche questo.

ore 7,25 -  Indosso la tuta-doccia; oggi sembra che
 gli spruzzini  d’acqua e di liquido sterilizzatore
 all’interno della tuta funzionino tutti. Magnifico!

Intanto sulla parete scorrono le immagini del
rifornimento mattutino, quella che una volta
veniva chiamata “prima colazione”: bistrot parigino,
 café au lait e croissant sul bel tavolino all’aperto
 in una splendida giornata di sole.

ore 7,35 - Tolgo la tuta-doccia e dalla scatola rifornimento
 tiro fuori  il necessario: prima la pastiglia 1 o la
pastiglia 2? Oggi mi sa che gusterò prima il croissant,
 cioè pastiglia 2 e poi il café au lait cioè pastiglia 1.
C’è poco da dire, i croissant francesi sono in assoluto
 i più buoni dell’intero universo. Che goduria!                                                    Stefania Biancuzzo
Es.10)            anno 2582
Anno 2582
ore 7,10 - Mi chiama La voce calda e suadente di “svegliator”, mentre la  piccola stanza si illumina di una luce man mano sempre più vivida e sulle pareti cominciano a scorrere le immagini della bella spiaggia dei Caraibi (quella famosa con le palme) che ho selezionato ieri sera, prima di andare a letto.
Ok, un altro giorno ha inizio.
ore 7,20 - Tolgo la tuta-riposo;  devo dire che questa  è molto più comoda della precedente: mi infilo dentro, mi solleva all'istante e con il suo leggero fluttuare, concilia magnificamente il mio sonno. Fantastica!
Nell’angolo bagno mi infilo il pantalone –wc – riciclo  per i miei bisogni corporali, ok, fatto anche questo.
ore 7,25 -  Indosso la tuta-doccia; oggi sembra che i sottili spruzzi  d’acqua e di liquido sterilizzatore  all’interno della tuta funzionino tutti. Magnifico!
Intanto sulla parete scorrono le immagini del rifornimento mattutino, quella che una volta veniva chiamata “prima colazione”: bistrot parigino, café au lait e croissant sul bel tavolinetto di ferro rotondo, all’aperto, in una splendida giornata di sole.
ore 7,35 - Tolgo la tuta-doccia e dalla scatola rifornimento tiro fuori  il necessario: prima la pastiglia 1 o la 2? Oggi mi sa che gusterò prima il croissant, (pastiglia 2) e poi il café au lait (pastiglia 1). C’è poco da dire, i croissant francesi sono in assoluto i più buoni dell’intero universo. Che goduria!
                                                                                                           
-    2582: Non il passato, ma il futuro
-    Polemica nascosta. Ironia: dico una cosa ma voglio far capire un’altra
-    Elogio del futuro (goduria) / in realtà: denuncia

Tutto a posto?
(Unhappy Hour)


-    Oh, ma c’è il buffet?
-    Sì sì, e bello ricco!
-    Ok, aggiudicato... Cameriere!
-    Ragazzi, ho trovato un ristorantino… di quelli giusti!
-    Dove? Dove?
-    Guarda, proprio dietro Piazza Missori, un po’ scomodo per il parcheggio, ma vi giuro, ragazzi: imperdibile!
-    Ma va’? Racconta, racconta!
-    Dunque: sono specializzati in carpaccio di pesce spada… una roba che non ti dico, da leccarsi i baffi…
I vini, poi.. Dopo aver fatto il corso di degustazione l’anno scorso lo sai che sono diventato un intenditore della madonna… E il bello è che sono pure un palato fino: che ci vuoi fare, ci sono nato… hehehe…
-    Ormai a te non ti frega nessuno in fatto di vini!
-    Bravo… E quel posticino lì… Il fatto loro lo sanno, eccome se lo sanno… E la location, ragazzi, una roba da urlo!
-    Si vive una volta sola, ecchecazzo…
-    Bravo…
-    Oh, indovina chi è incinta!
-    Chi?
-    La Giuliana!
-    Chi? Quella carampana lì? Ma se c’avrà 40 anni!
-    Esatto!
-    Ma pensa te… Cosa vuole fare, la nonna dei suoi figli?
-    Guarda, secondo me dopo i 30 lo dovrebbero proibire per legge… Ma chi si credono di essere queste qua che   
passano la vita tra un aperitivo e l’altro, e poi si svegliano belle belle a 40 anni e vogliono un figlio??
-    Giusto…
-    Oh, ma tu te lo fai un altro mojito?
-    Ma sì, va…
-    Cameriere! Dunque… dicevo… ma tu ti immagini se chiedono a tuo figlio ventenne: “Ma tua madre quanti anni ha?”,
e gli tocca rispondere “Sessanta”?
-    Pazzesco…
-    No no, dovrebbero fare una legge… Ma pensa te…
-    Senti, ma con la dieta come va?
-    Guarda, ne ho trovata una fantastica!
-    Ma va’? Dimmi!
-    Dunque: la mattina a colazione mangi spaghetti aglio e olio, oppure braciola, ma rigorosamente senza sale!
-    Eh??
-    Sì! E’ questo il segreto!
Poi, per dire, a pranzo mangi una melanzana al forno e quattro peperoni al vapore.
-    E’ un bel po’ di roba, eh?
-    Sì sì, ti riempie un casino, così sei a posto fino alla cena!
-    Beh, immagino…
-    Poi a cena ti fai un cavolfiore, intero eh? Lessato senza sale, ovviamente, e con un cucchiaino d’olio.
-    Ah…
-    Poi ogni due giorni devi telefonare al dietologo: è un po’ una menata, eh? Perché è sempre occupato… Ma quando
riesci a prendere la linea ti dà il menu per due giorni!
-    Ah, ok…
-    Ti tratta un po’ a pesci in faccia, eh? Ma lo fa per spronarti, per il tuo bene! Ad esempio, se non hai perso un etto ti
dice: “Brutta lardona, ma ce l’hai ancora il coraggio di guardarti allo specchio?”: per me è un genio!
-    Hahaha… troppo simpatico… Ma sai che quasi quasi lo provo? Quanto costa?
-    Beh, sono 200 euro a seduta.
-    ‘Azz…
-    Ma guarda che in due giorni ho già perso tre chili, eh?

Ferloni Cristina


Amendola Angelo



Ieri  sono stato ad un corso di scrittura creativa. Il corso si svolgeva nel mio quartiere “la bovisa”,meno male che era vicino casa , dato l’orario serale e la mia pigrizia.

Arrivati in aula ci hanno presentato i due insegnanti , un professore italiano ed un scrittore rumeno, che se non c’è lo dicevano che era straniero l’avrei preso per “italiano milanese” parla senza alcun accento, forse una punta di meneghino. È della transilvania , spero che ci parlerà del suo paese, non per quel che pensate non sono curioso di sapere se ha visto il famoso castello del famigerato conte, ma di come si vive cosa mangiano , com’ è il loro governo ecc….
Il corso si chiama “il quartiere dei destini incrociati” ed è un corso per italiani e stranieri, che anche nel sottotitolo hanno specificato “laboratorio di scrittura creativa per cittadini italiani e stranieri”. Effettivamente di stranieri ce ne sono , c’è una cantante lirica cinese ,sposata ad un italiano, un ragazzo nord africano laureato in storia, che lavora come operaio, una ex hostess anche lei del nord africa,una signora rumena accompagnata dalla sorella che vive in svizzera e che odia le zanzare, c’è il programmatore , insomma quello che ha fatto il sito del corso ,che mi sembra che sia del perù ed anche una signora che fa la badante anche lei sudamericana, dietro di me c’è una signorina anche lei straniera che viene per imparare l’italiano , lei non legge e non ha fini intellettuali , ma va bene così ………..
Il professore , quello italiano per intenderci, ci ha spiegato ,leggendo un pezzo della “mia africa “ la parola destino , era la storia di un “povero negro” che aveva una casa tonda con una finestra tonda con un prato a triangolo e che quando usciva di casa inciampava sempre ,insomma una vera tragedia che se non era che alla fine tutto sto macello tra traumi e distorsioni finisce per creare , visto dall’alto “ una cicogna”. Peccato che lui non se ne sia accorto magari dalla sala gessi un sorriso gli sarebbe scapato.
Comunque il concetto era che dell’ nostro destino non sappiamo niente.
Ci hanno letto dei brani di un scrittore che ha descritto la bovisa con molta poesia,una sua descrizione mi ha colpito molto “in piazza schiavone , uno dei pochi luoghi dove si può bere la birra calda” , vera poesia, la birra calda nella piazza e nel cortile del “penny” viene bevuta da gruppi di zingari litigiosi, “brutti,sporchi,e cattivi” , che quando fai la spesa cerchi sempre di non passargli vicino, non c’è limite allo spirito e sopratutto all’ umanità , grazie .
Abbiamo anche mangiato la colomba e bevuto lo spumante , meno male che il mio amico Gianni,che aveva tanta fame  e che si muoveva sulla sedia aspettando il via per i festeggiamenti,ha anche fatto presente che oramai ci eravamo presentati tutti ,cosa aspettiamo, accolta a l’unanimità la sua richiesta ci siamo lentamente alzati e velocemente fiondati sul cibo.
È stata una lezione molto interessante .
Grazie a tutti.



Amendola Angelo

Ieri  sono stato ad un corso di scrittura creativa. Il corso si svolgeva nel mio quartiere, “la bovisa”. Meno male che era vicino a casa , dato l’orario serale e la mia pigrizia.

Arrivati in aula ci hanno presentato i due insegnanti, un professore italiano ed uno scrittore rumeno, che se non ce lo dicevano che era straniero, l’avrei preso per “italiano milanese”. Parla senza alcun accento, forse con una punta di meneghino. È della Transilvania , spero che ci parlerà del suo paese. Non per quel che pensate: non sono curioso di sapere se ha visto il famoso castello del famigerato conte, ma di come si vive, cosa mangiano , com’ è il loro governo ecc….
Il corso si chiama “il quartiere dei destini incrociati” ed è una iniziativa per italiani e stranieri. Anche nel sottotitolo hanno specificato “laboratorio di scrittura creativa per cittadini italiani e stranieri”. Effettivamente di stranieri ce ne sono : c’è una cantante lirica cinese ,sposata ad un italiano, un ragazzo nord africano laureato in storia, che lavora come operaio, una ex hostess anche lei del nord africa,una signora rumena accompagnata dalla sorella che vive in svizzera e che odia le zanzare, c’è il programmatore , insomma quello che ha fatto il sito del corso , che mi sembra che sia del Perù e c’è anche una signora che fa la badante, anche lei sudamericana. Dietro di me c’è un’altra signorina straniera, che viene per imparare l’italiano : lei non legge e non ha fini intellettuali , ma va bene così …
Il professore , quello italiano per intenderci, ci ha spiegato ,leggendo un pezzo de “La  mia Africa “ la parola destino . Era la storia di un “povero negro” che aveva una casa tonda con una finestra tonda con un prato a triangolo e che quando usciva di casa inciampava sempre. Insomma una vera tragedia,  se non era che alla fine tutto sto macello tra traumi e distorsioni finisce per creare , visto dall’alto “ una cicogna”. Peccato che lui non se ne sia accorto: magari dalla sala gessi un sorriso gli sarebbe scapato.
Comunque il concetto era che del nostro destino non ne sappiamo niente.
Ci hanno letto dei brani di uno scrittore che ha descritto la Bovisa con molta poesia. Una sua descrizione mi ha colpito molto: “in piazza Schiavone , uno dei pochi luoghi dove si può bere la birra calda” . Vera poesia, la birra calda nella piazza e nel cortile del “penny” viene bevuta da gruppi di zingari litigiosi, “brutti,sporchi,e cattivi” , che quando fai la spesa cerchi sempre di non passargli vicino. Non c’è limite allo spirito e sopratutto all’ umanità , grazie .
Abbiamo anche mangiato la colomba e bevuto lo spumante. Meno male che il mio amico Gianni, che aveva tanta fame  e che si muoveva sulla sedia aspettando il via per i festeggiamenti, ha anche fatto presente che oramai ci eravamo presentati tutti ,cosa aspettiamo? Accolta all’unanimità la sua richiesta ci siamo lentamente alzati e velocemente fiondati sul cibo.
È stata una lezione molto interessante .
Grazie a tutti.



Amendola Angelo

Altri testi letti


IL FIGLIO DELLA BARCA

Non c’è, nella stabilità di un uomo che ha la ragione e la disciplina, un riposo.
E allora lascia la patria ed esiliati.
Ho visto che lo stagnare dell’acqua la imputridisce.
Se scorre è più buona e se non scorre non è buona.
In una notte in mezzo al mare c’è una barca e tra i suoi passeggeri c’è una donna incinta, tutti stretti
e ammassati… Improvvisamente la donna incomincia ad urlare dal dolore; ha le doglie. Nessuno
può aiutarla, la sua amica non riesce che a tenerle la mano e incoraggiarla a sopportare… Si rialza
urlando: “Chiedete aiuto!”. Ma nessuno si occupa di lei. Continua ad urlare ed urlare finché uno dei
passeggeri grida: “Fatela stare zitta oppure buttatela a mare! Forse starà meglio lei e staremo meglio
anche noi.” Un altro gli strilla : “Taci, misero! Hai dimenticato i favori di suo marito per noi tutti?”.
Tutti tacciono e comincia un flashback: un gruppo di persone nel deserto affronta una tempesta di
sabbia con al suo capo un uomo, Rahaal, che chiede loro di sopportare… Superano la tempesta
grazie all’esperienza e l’abilità di questo uomo che insiste per salvarli e trovare per loro delle
soluzioni ad ogni ostacolo incontrato (mine ai confini, fili spinati…….). Lui è l’unico che conosce il
percorso perché ne ha già avuto esperienza, senza successo… Riesce a portarli fino al mare dove
incomincia l’avventura più pericolosa. E grazie alle sue conoscenze provvede ad avere una barca in
un tempo brevissimo. Mentre si preparano per andare al largo arrivano le guardie costiere che
ordinano loro di fermarsi mentre lui grida ai suoi compagni di muoversi. Dopo che si accerta che
tutti siano saliti sulla barca, e mentre lui stesso si stava avvicinando per salirci, lo colpisce una
pallottola. La barca si inoltra nel mare e si allontana dagli occhi. Torniamo alla barca. Un uomo
dice: “Rahaal era come la cera di una candela. Si è consumata per dare luce a noi”. Un altro dice:
“Ci ha insegnato il senso della vita e l’importanza di cercare la verità”. Un altro ancora dice:
“Rahaal non è morto, lui è vivo nei nostri cuori. Voi non avete visto il suo grande sorriso e anche
mentre moriva era felice”. Si alza uno tra loro: “ Tutti noi siamo quell’uomo, tutti noi cerchiamo la
vita”. Si toglie la camicia, la impregna di benzina e le dà fuoco buttandola nel mare per dare un segnale di richiesta di aiuto. Tutti tacciono a lungo. Rompono questo silenzio le grida del bambino.
La donna ha partorito. Tutti ridono, la donna guarda il suo bambino e questo  è il suo ultimo
sguardo… Lascia la vita non sopportando il dolore del parto. L’amica la copre con un telo… Un
profondo silenzio riveste l’imbarcazione e non si sentono se non le grida  del bambino che si
affievoliscono man mano. Forse l’acqua del mare ondeggiando culla il bambino come un ventre
materno. Improvvisamente il posto si illumina tutto come fosse giorno. Arrivano i soccorsi. L’amica
guarda con occhi lucidi dicendo: “È troppo tardi.” Subito sale a bordo il primo soccorritore
controllando lo stato di salute dei passeggeri. Nota la presenza del bambino e chiede: “Di chi è
questo bambino?”. L’amica risponde: “Questo è il figlio della barca”.
© Mustapha Ouelli


Teresa uno
Più che una società liquida, quella che lei vedeva le appariva gassosa. Non che non ci fossero certezze e anche diritti. Solo che ogni volta che cercava di dare ordine alle cose, ne veniva fuori un a che fare con fisionomie vaporose, dove le aree di obblighi e spettanze si invadevano a vicenda e si sottraevano ai confini che le sembrava di aver pattuito. E questo fluttuare di parvenze le accadeva senza che nessuno e niente di fronte a lei agisse, chiedesse, rispondesse. Le promesse tra le persone e le cose con cui aveva a che fare, le apparivano trascendere nel caos più assoluto come un groviglio di inesattezze. E si sentiva presa dall’immagine che aveva di Odisseo, quando scende all’Ade che si allunga con la mano per avvertire le forme della madre Anticlea. E tutte attraversa senza ostacolo. Allo stesso modo anche Teresa  rimaneva sospesa nel vapore pungente dei diritti e dei doveri, delle attese e dei ruoli, senza una sporta in cui raccogliere niente di più che apparizioni insolite e pensieri, avanti e indietro. Uno stare vaporoso, dove il passato delle promesse e delle intenzioni che ritrovava mano a mano scadute, le si presentava liquefatto ai piedi come scif ciaf di pozzanghere. E l’attesa era densa di figure in procinto, come silhouette inafferrabili.
Una agenda da colera. Le veniva così da intitolare questo presente vaporoso ed evaporante, mentre si accingeva a scendere a Dergano MM. Un tempo infinito la riportava in Bovisa dove si era fermata per l’ultima volta quarant’anni prima.


Legenda: In giallo le cose cambiate, in rosso quelle tolte, in azzurro le osservazioni, in verde i cambiamenti proposti

La Ciminiera

L’aria era livida e fresca quella mattina di settembre. Il cielo aveva uno strano colore, sapeva di garofano e cannellaLa signorina Y [gli altri personaggi li chiami per nome, quindi darei un nome anche a questo personaggio, magari senza “signorina”, che ne so, Maria, con passo spedito, era diretta…] con passo spedito era diretta alla stazione della Bovisa. Era da poco sbucata da via Don Giuseppe Andreoli in piazza Emilio Alfieri. Un percorso obbligato, abitudinario. Eppure c’era qualcosa che non la convinceva. Avvicinandosi alla stazione un rumore sordo e intermittente, come un battito di cuore ferito, la accompagnava nella sua veloce andatura. Si impose di non farci caso. Non voleva fare tardi. La riunione di lavoro in pieno centro – a due passi dal Duomo – era fissata per le 8.30. Un orario decisamente antelucano per quel tipo di riunione. Ma tant’è: il nuovo Direttore di Sistema passava per un lumbard d’altri tempi: tutto casa e lavoro e precisione svizzera e senza nessuna distrazione.

Mohamed non aveva dormito bene per tutta la breve notte. Quando l’orologio al quarzo giapponese strillò le quattro del mattino, era già sveglio. Ma si alzò lo stesso a fatica. Qualcosa Lo angustiava ed era una sensazione sottile, che non riusciva a emergere alla coscienza. Era qualcosa di diverso dalla paura e dal terrore che provò più volte nel suo viaggio per raggiungere Lampedusa con una vecchia barcaccia, poco più di un gommone. aveva provato più volte sulla vecchia barcaccia, poco più di un gommone, con cui era giunto a Lampedusa

Nella stanza a fianco dello stesso appartamento dell’ultimo piano di via Carlo Imbonati, Darien dormiva ancora profondamente. L’edificio era una vecchia, maestosa casa di ringhiera, costruita ai primi del novecento. L’appartamento – un sottotetto riadattato ad abitazione di fortuna - era alquanto fatiscente, ma Mohamed e Darien non si lamentavano. L’affitto, che dividevano con due ragazzi senegalesi, era abbordabile e permetteva di non dilapidare il salario che guadagnavano come muratori. Qualcosa rimaneva da spedire alle famiglie lontane.

Darien dormiva beato, quando, alle quattro e dieci, anche la sua sveglia squillò come un gallo scannato. Si piccava di essere più rapido di quel vecchio arabo che l’aveva fatto assumere alla sua stessa Ditta di costruzioni.

Sotto il portone li aspettava Khaled col furgoncino della Ditta. Khaled era l’uomo tuttofare. Aveva la patente da prima di partire dall’Afghanistan. Il suo era stato uno dei tanti viaggi della disperazione in fuga dalla guerra e dai talebani.

Quella mattina il viaggio per arrivare al cantiere era breve e non prevedeva tappe intermedie. Khaled era prudente nella guida. Aveva paura degli italiani, la cui guida gli sembrava troppo nervosa. Percorse via Carlo Imbonati fino al primo semaforo. Svoltò a sinistra in via Giulio Cesare Abba, proseguì per piazza Dergano, dove – dopo due rotonde mignon che solo la follia urbanistica nutrita dalla ‘ndrangheta poteva partorire – imboccò via Giuseppe Tartini. Al semaforo di via Filippo Baldinucci si accorse che non poteva svoltare a sinistra, quindi proseguì fino allo stop successivo, dove finalmente poté imboccare via Giuseppe Candiani. Proprio all’inizio c’era una strettoia, per cui Khaled fu costretto a rallentare l’andatura. Ma i due passeggeri non si lamentarono, erano in anticipo. Avrebbero iniziato il turno di lavoro alle 4.30. Sbucarono in piazza Alfieri mentre il cielo plumbeo odor cannella e color garofano principiava a schiudersi al nuovo giorno.

Cantiere chiuso, ma Khaled aveva le chiavi di quel tipico cancello da cantiere. Questi La Sirio iniziava ai piedi della scalinata che portava alla stazione. La Sirio Adesso non c’era più. La storica fabbrica di glicerina e saponi profumati era stata buttata giù in pochi mesi. Svettava ancora la Ciminiera. Tutti i vecchi abitanti dello storico quartiere si erano mobilitati per difenderla. dalla follia distruttrice del costruttivismo selvaggio. Via quel rudere, urlavano a squarciagola i costruttori. La Ciminiera non si tocca, rispondevano per le rime i cittadini della Bovisa ma anche quelli della vicina Dergano. La Ciminiera era il loro sangue, la loro vita, la loro storia. E anche se la fabbrica era chiusa ormai da anni, la Ciminiera no, non poteva né doveva essere buttata giù. Petizioni in Consiglio di Zona, interpellanze al Consiglio Comunale, articoli nei giornalini di quartiere, tutto l’associazionismo mobilitato in sua difesa.

Mohamed, turbato, ora sapeva perché. Darien, tranquillo anzi euforico, sapeva perché. Khaled li salutò per continuare a fare il tassista a prendere di operai – tutti esclusivamente stranieri - e portarli ai vari cantieri della grande Ditta.

La spianata era quasi completa; sembrava un enorme campo di calcio ad una leggera profondità rispetto al ciglio della strada. Svettava sola la Ciminiera. Darien cominciò a salire su quella strana gru gigantesca. La sua cima Che sovrastava la Ciminiera di almeno cinque metri. In cima c’era una piccola cabina. A terra la gru aveva invece una comoda grande cabina di guida. Mohamed col groppo alla gola iniziò le operazioni della complessa macchina. Darien nulla poteva fare se prima tutte le operazioni della cabina di comando non fossero terminate. Non era solo per la sicurezza, ma semplicemente perché il generatore forniva la corrente continua alla minuscola cabina, dove Darien lui avrebbe lavorato. Dalla sommità della gru, sopra Darien di almeno un metro, il braccio si allargava e diventava una specie di grasso uncino da cui partiva una fune d’acciaio dal diametro impressionante. La fune finiva in una sfera anch’essa d’acciaio. Acciaio speciale, lavorato per essere cinque volte più duro di quello normale.

    - E sbrigati vecchio lumacone – urlò Darien dalla cima. La sua voce esplose nell’aria silenziosa del mattino.

    - Disgraziato, aspetta almeno che il motore sia a regime. Che fretta hai? – gli rispose di rimando Mohamed in un italiano molto corretto, ma con una pronuncia che tradiva le sue origini arabe.

Darien azionò le leve, la cabinetta cominciò a ruotare. Si posizionò a perpendicolo con la Ciminiera e il gancio cominciò ad ondeggiare. Quando la sfera raggiunse una certa velocità, Darien colpì con un primo colpo il vertice della Ciminiera.

Quel colpo materializzò in Mohamed tutta l’angoscia della notte: quella gru gli ricordava i minareti della sua terra. Distruggerla era una profanazione quella distruzione. Controllava i comandi con rabbia. Maledisse il giorno in cui trovò lavoro in quella Ditta. Avrebbe voluto scappare, lasciare quel matto di Darien da solo. Ma fu un attimo. Non poteva certo abbandonarlo alla sua furia distruttrice.

Darien era in preda a un delirio di onnipotenza. Gli sembrava di essere un eroe invincibile contro cui nulla potevano i nemici. Era dentro un videogioco, dell’ultima generazione in cui i comandi rispondevano a meraviglia, e con precisione e potenza di fuoco inimmaginabile. Darien, giovane albanese giunto in Italia con la Vlora, si era subito dato da fare. Aveva studiato fino alle superiori, sapeva l’italiano meglio di molti lumbard, poteva continuare gli studi all’università, non era mica stupido, tutt’altro; ma preferiva il lavoro manuale. Il suo diploma di perito meccanico gli permetteva di fare lavori di alta specializzazione. Guidare quel mostro con precisione non era da tutti. Per esempio Mohamed non ne era capace. Si trovava meglio nella grande consolle giù da basso, dove i comandi si traducevano in lenti movimenti della macchina che non avevano bisogno di una particolare precisione.

Il lavoro di distruzione procedeva con lena, ma la torre era dura da addomesticare. Avevano fatto male i calcoli quelli della Ditta.  Con quella macchina e con Darien ai comandi erano sicuri di finire l’opera completa di demolizione entro le 7.00, prima che iniziasse il flusso ininterrotto di pendolari che dal nord scendevano come lanzichenecchi ad occupare tutti i posti di prestigio del quartiere. Ma avevano fatto i conti senza quella forte fibra della Ciminiera. Ogni colpo era una ferita, ma pochi calcinaci caracollavano a terra. Vanificata la speranza di finire in fretta, il direttore dei lavori aveva permesso ai due operai di fare una pausa, quando i primi pendolari cominciavano a scendere dalla stazione.

Quando la signorina Y fu a metà del piazzale, rallentò il passo e, senza volerlo, lo sincronizzò ai con i colpi che dalle orecchie passavano al cervello. Alzò lo sguardo e quasi urlò dalla sorpresa. Fu allora che collegò uno lo strano movimento di del pendolo al rumore sordo. Vide con orrore il potente maglio scagliarsi con veemenza contro la Ciminiera. La Ciminiera, che da tanti anni faceva parte del suo orizzonte. Affrettò il passo, corse addirittura fino a metà della scalinata. Si fermò e urlò: “Maledetti, cosa state facendo?”. Ma nessuno le diede retta. Non la gente che scendeva dalla scalinata, non gli operai e i tecnici che erano dentro il cantiere. Vigliacchi” disse ormai con una flebile voce solo mentale “Avete iniziato i lavori di notte, perché alla luce del sole vi sareste vergognati. Cosa faccio adesso. Vado alla riunione o cosa. Impiegò solo un attimo e senza darsi risposta girò sui tacchi, rifece la strada appena percorsa e si catapultò a casa, in via Giudice Donadoni. Prese la sua piccola Olimpus XA2 ed un rullino e tornò velocemente sui suoi passi, ma più tranquilla. Sapeva ormai che la Ciminiera avrebbe opposto fiera resistenza prima di cedere. Inizio a scattare già dall’angolo di via Andreoli, una foto via l’altra. Non le interessava certo la foto d’arte in quel momento ma solo testimoniare quella distruzione insensata. La fotografò da tutte le parti, col maglio in tutte le posizioni. Le immagini avrebbero addirittura potute essere viste in sequenza, come nella scatola magica, a ricrearne il movimento, come una vera macchina da presa. Finì il rullino in pochi minuti. Ripartì con l’altro. Scattò e scattò e lo consumò rapidamente. Alla fine esausta decise di andare alla sua riunione. Arrivò con notevole ritardo, seguì distrattamente i vari interventi, ma la sua mente era alla Ciminiera. Come previsto, la riunione – dopo una breve pausa pranzo – un panino e una birra al bar d’angolo – proseguì nel pomeriggio. Finì alle cinque. Finalmente riprese la strada di casa. Metrò fino in Cadorna, poi trenino fino alla Bovisa. Aveva il cuore in gola. Non sapeva a che punto fossero arrivati i lavori di demolizione. Con piacevole sorpresa vide che ancora più di metà della Ciminiera era in piedi. Si ricordò di avere in tasca la piccola Olimpus. Ritornò indietro verso la stazione. Il giornalaio era ancora aperto e aveva i rullini. Ne comprò due da 36 pose e con calma sostituì il primo. Scattò le foto con estrema lentezza. Ormai non aveva più fretta. La tragedia si sarebbe consumata ineluttabilmente. Andò a casa con il fermo proposito di tornare l’indomani per finire anche il secondo rullino. Ma non fu possibile. La mattina il cielo era ancora livido di odor cannella e di color garofano, ma la Ciminiera non c’era più. Il cielo piangeva una pioggia sottile.

Milano 13-04-2012                                    F. M. Basile


Il prurito

Ogni volta che Diego passava davanti al bar della Fontana avvertiva uno strano formicolio impadronirsi del suo corpo.
Era una sensazione piuttosto sgradevole, fastidiosa al punto che cedeva quasi sempre alla tentazione di grattarsi furiosamente.
Questo senso di disagio era localizzato in ogni molecola del suo organismo  e la cosa lo metteva in una situazione molto seccante perché l’istinto irrefrenabile di strofinare freneticamente ogni parte della proprio persona era piuttosto imbarazzante.
Verrebbe spontaneo pensare, perché non cambia strada dato che in effetti il tragitto dal garage alla propria abitazione si allungava percorrendo quel tratto di via.
Il motivo c’era, eccome se c’era.
Si chiamava Joceline.
Era una ragazza mora dai lunghi capelli corvini che a Diego piaceva da impazzire.
Vendeva articoli da regalo e svolgeva la sua attività in un piccolo negozio adiacente al  bar della Fontana.
Purtroppo a causa di quel maledetto inconveniente (la grattarola) non era mai riuscito ad attirare la sua attenzione.
Ad essere sinceri l’attenzione l’aveva attirata fin troppo,
 Non capita tutti i giorni di vedere un tipo brufoloso e goffo che si gratta come uno scimmione tarantolato essere inseguito da un’orda di ragazzini schiamazzanti, il tutto accompagnato da un rossore papaverino che dilagava inclemente sul suo volto in balia di ogni sorta di tic.
Che speranza poteva avere quello che ormai era diventato lo zimbello del rione di sperare di aver successo con la bella Joceline ?
Aveva provato con ogni tipo di pomata,nessun tipo di farmaco riusciva a risolvere quello che era ormai diventato l’incubo della sua esistenza.
Si era inutilmente sottoposto ad ogni tipo di esame, niente da fare.
Come ultima spiaggia rimaneva una sola cosa da tentare,sperare nell’intervento miracoloso di un mago.
Trovarne uno non sarebbe stato un problema,non c’era che l’imbarazzo della scelta.
La cosa non gli andava molto a genio, Diego non credeva a quel genere di cose, ma, a quel punto la situazione era ormai diventata insostenibile e, piuttosto riluttante si mise alla ricerca di un santone in grado di risolvergli il problema.

                                                                                                                       …continua
Flores Condor Griselda


e infine


Ancora ricordo quell'agosto del '63 quando quel pomeriggio il mio nonno arrivava a casa mia facendo il misterioso e portandomi un regalo. C'era un aquilone grandissimo rotondo con i nastri che fiammeggiavano muovendosi freneticamente al soffiar del vento. Mi portarono a un prato non molto lontano da casa mia, insieme a mio padre. Mi insegnarono alcuni segreti per fare volare l'aquilone fantastico, perché quando raggiungeva una bella altezza (distanza) tirava tanto che se non fosse stato questa corda fatta di canna di …, molto resistente invece della cordicina normale (…) nella mia mente da bambina sognavo che scappava e arrivava al sole. All'inizio era interessante perché dovevamo calcolare il peso della coda così al … non dondolava od oscillava. Dopo aver tentato per tre-quattro volte prendeva il volo. Che allegria che gioia, non volevo che finisse mai quel pomeriggio. Adesso trasmetto questi bei ricordi al mio nipotino che gli voglio tanto bene.


Un giorno d'estate mentre giocavo vicino a un piccolo fiume che c'era dietro casa mia mi apparve come un sogno l'immagine della Madonna che mi segnalava con il dito il tragitto del fiume. In quel momento mi sono avvicinata spaventata perché non sapevo cosa voleva dirmi. Grande fu il mio spavento quando vidi passare sulle acque il mio cuginetto di 2 anni. Presa dal panico e disperazione mi buttai subito per salvarlo, lo tirai fuori dall'acqua e corsi subito dai suoi genitori. Loro non credettero a quello che gli avevo raccontato e si misero a piangere.

Martinez Moya Rosa    

Esercizi

-         2.1) Pensiamo alla trama di uno spot pubblicitario (papà e figlio sono in auto→ incomincia a piovere → pericolo → interviene l’omino delle gomme → tutto risolto. “I nostri amici erano con la barca in panne” → il concerto è a rischio → arriva il motoscafo che li aiuta → il concerto è salvo…) e facciamone una parodia (una presa in giro mantenendo la trama, ma ambientandola magari in Bovisa)

-         2.2) Pensiamo alla trama di uno spot pubblicitario e incominciamo a “sporcare” la storia, a renderla più complessa…

-         2.3) Pensiamo a una situazione conflittuale: qualcuno che a qualcuno potrebbe dare fastidio (dal punto di vista dei ruoli sociali, un suonatore in metropolitana, un lavavetri a un semaforo, un venditore insistente di rose…) o mettere a disagio (un uomo politico che detestiamo) e collochiamolo in una situazione narrativa, come una pedina in una scacchiera. Come si comporteranno gli altri personaggi?

-         2.4) Pensiamo a una figura generalmente considerata negativamente (un evasore fiscale, un uomo corrotto…) e proviamo a raccontare la “sua” storia”, il “suo” conflitto, i “suoi” antagonisti, senza ironia, provando ad immedesimarci nei suoi panni. Forse faremo emergere altri indegni personaggi, forse potremo capire, senza condannare e senza giustificare, la rete, la logica del malaffare. Ricordiamoci che il nostro ambiente virtuale è la Bovisa

-         2.5) Pensiamo a una relazione squilibrata, implicitamente conflittuale tra soggetti, come c’è spesso in un rapporto di lavoro che non ha ancora assunto le sue giuste regole, dove i ruoli sono confusi, le competenze non valorizzate, le persone sottovalutate o sottostimate a causa di pregiudizi e delle leggi della società accogliente (come nel rapporto tra malato, famigliari e badante, ad esempio, o tra capo cantiere e operaio laureato straniero…) e proviamo a mescolare le carte, i valori, i ruoli…

-         2.6) Il conflitto (civiltà / natura, adulto / bambino) può anche essere riappacificato, trovare un superamento, una mediazione. Diventare una ricchezza. Riusciamo a raccontare una storia in proposito?

-         2.7) Il conflitto può anche essere preso in giro, esasperando in modo caricaturale gli aspetti negativi

 





    
     

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