La linea del colore

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È questo il penultimo lavoro di Igiaba Scego. Romanzo molto denso, intrigante. A fine lettura si rimane con un insieme di sentimenti, riflessioni che rimandano a considerazioni sulla storia dell’Italia, di Roma in particolare e della situazione attuale. Chissà se stiamo attraversando una svolta significativa del percorso storico della nostra penisola più legata ai momenti sordidi avvenuti a metà Rinascimento quando il Bel paese perse la sua indipendenza, ricostruita dopo secoli e forse mai compita appieno, o se siamo ancora una volta attraversando momenti bui come quelli del fascismo. Certo è che la capacità di accoglienza, di tolleranza dimostrata dagli italiani in secoli di rapporti con molteplici popoli sembra si stia esaurendo. Le propagande politiche, i diritti negati ai figli di immigrati nati in Italia, la loro emarginazione dai posti di lavoro, di responsabilità sociale, ormai ci rende evidente i percorsi di egoismo e intolleranza, che non sono solo paura dello straniero, ma includono un arretramento culturale e di civiltà della nostra società.
Questo è un primo elemento sotteso a tutto il romanzo. Un secondo, forse più direttamente significativo agli occhi dell’autrice riguarda la continua focalizzazione della violenza perpetrata in molti momenti della storia nei confronti degli africani e in special modo di quelli dalla pelle nera. Schiavizzati per secoli, ritenuti figli di Cam e quindi con diritto di renderli tali, solo
nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri e quindi in possesso di un’anima. Forse noi occidentali non   ne abbiamo ancora la totale consapevolezza di un’acredine che cova per come ci si è permesso per secoli di brutalizzare persone, popoli, solo perché avevano un colore diverso di pelle. E tuttavia il romanzo di Igiaba Scego è un affresco alla capacità di una città come quella di Roma di accettare la diversità, di conglobarla nella propria vita quotidiana.

Il romanzo della scrittrice, ricordiamocelo italiana, ha una pregevole caratteristica formale. E’ strutturato a modalità oscillatoria. E’ come un pendolo che in un verso affronta temi e storie narrative della seconda metà del milleottocento, nell’altra metà invece ci si riporta ai nostri tempi. Questa dimensione pendolare è rigorosamente costante. Nella parte ottocentesca il personaggio principale è una pittrice “Lafanu”, nata negli Stati Uniti, ma trapiantatasi a Roma in cerca della sua affermazione artistica che solo la città eterna le avrebbe potuto permettere. Lafanu, personaggio inventato è una persona di colore alla costante ricerca della sua libertà. Una violenza subita sembra per un momento portarla alla distruzione, ma la sua capacità artistica, disegnatrice e pittrice, la salva. Per sviluppare e affermare la sua arte rinuncia anche al matrimonio con un suo amato, anch’egli personaggio noto negli ambienti dell’abolizionismo statunitense. Questi si era liberato dalle catene dello schiavismo fuggendo e con una sua narrazione era diventato famoso.
Anche a Roma Lafanu, dopo l’eccidio di Dogali, rischia di essere travolta da una folla inferocita contro i neri, ma viene salvata da un uomo che di lei poi si innamora e le chiede di sposarlo. L’artista americana è una persona sincera e prima di dare una risposta si mette a scrivere e raccontare la storia della sua vita. Tutta la parte ottocentesca del romanzo è in fondo la scrittura della sua vita fatta da Lafanu. Però solo in brevissime parti il narratore è intradiegetico, nella maggior parte è extradiegetico. E’ forse lo stratagemma perché Lafanu possa essere visto come personaggio nella sua oggettività e si possa permettere al lettore  una identificazione più lineare.
L’altra parte del pendolo è invece ambientato in diverse parti d’Italia, specie Venezia e racconta di una organizzatrice di eventi artistici, anch’ella nera,  Leila, che si propone di far conoscere la grandezza dell’arte di Lafanu. La Biennale di Venezia sembra essere il luogo e ambiente adatto allo scopo. All’interno di questa storia c’è anche quella di Binti cugina della protagonista. Dimora a Mogadiscio e desidera   andar via e cercare una sua affermazione che nel suo paese è difficile trovare.  La narrazione del tempo attuale è contrassegnata dalla storia della fuga di Binti e delle sue tristi vicende. La storia di Lafanu e quella di Bitti corrono quasi in parallelo.


Più storie quindi si intrecciano formando un affresco di ampie dimensioni. E’ un po’ come avviene per i grandi quadri in cui c’è una storia principale, ma contornata  da altre che danno spessore alla prima e principale narrazione.

Igiaba Scego, che nei primi romanzi aveva affrontato aspetti del colonialismo e del neocolonialismo italiano, da tempo incomincia ad intessere le sue storie prendendo ad esame tutta la sofferenza che nei secoli hanno affrontato gli uomini di colore. Il suo sguardo dalla Somalia si è allargato a tutta l’africa subsahariana. E d’altra parte  le vicende attuali dell’Italia non la lasciano tranquilla.

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