La sponda oltre l'inferno

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I testi di Yunis Tawfik vertono su problemi sociali e politici e riguardano soprattutto la questione mediorientale e del nord africa, accentuando la riflessione narrativa su alcuni tragici avvenimenti che, in quel contesto geo politico, continuano a sorgere e perpetuarsi. Con la ragazza di piazza Tahrir veniva preso in esame il tentativo di rivoluzione avvenuto in Egitto nel lontano 2011 quando sembrava che tutto il mondo arabo, dopo il suicidio del tunisino Mohamed Bouaziz, ne potesse essere sconvolto. In questo romanzo è invece trattato un argomento che si trascina da anni e che sta riempiendo di cadaveri il Mediterraneo, e cioè il tentativo da parte dei “dannati della terra” di arrivare in Europa, Italia dapprima, attraverso la cosiddetta rotta mediterranea. Ormai se ne contano più di quarantamila e non pare che il numero sia destinato ad un incremento minore.

La storia viene incentrata sulla confessione di cinque naufraghi, fra cui una donna.  Un barcone si era rovesciato lasciando in mare decine di persone. In pochi si salvano e fra questi i cinque che si ritrovano a raccontare la loro storia. Provengono da paesi diversi, ma le cause che portano alla fuga dal loro paese è quasi sempre la stessa: la guerra e mancanza di prospettive.
L’altro dato che viene messo in evidenza è la durissima condizione che ciascuno di loro ha dovuto sopportare in Libia, vista come una prima meta da cui poter poi lanciarsi verso le sponde oltre l’inferno, perché la loro condizione prima di approdare a Lampedusa è solo e solamente inferno.
Non è però una raccolta di singoli racconti, ma è un romanzo a tutti gli effetti perché esiste un narratore unico, anche se tenue, che sorregge la trama narrativa.

La grandezza di questo testo, che si legge d’un sol battito di ciglia, sta nel saper tratteggiare con precisione e nel medesimo tempo delicatezza le violenze, le torture a cui sono sottoposti chi sta scappando e sta cercando di arrivare in Libia per il gran salto.

Sono le donne quelle che maggiormente vengono colpite nella carne e nello spirito, perché stuprate, violentate ripetutamente da singoli, da gruppi per tempi lunghissimi. È quello che accade a Siham, ad Halima, è quello che accade a Fnan.  Il mondo maschile sta diventando spietato. Non so se sia sempre stato così nella storia dell’umanità, ma sembrerebbe che sia il colpo di coda di un potere che, gli uomini sanno benissimo, sta venendo meno.

Il romanzo è anche capace di offrire uno sguardo storico, da saputo giornalista direi, perché la storia sugli avvenimenti della Libia, della Siria, del Darfur e di tanti altri paesi è ancora tutta da scrivere, tanto vicini sono i fatti, che Brodel definirebbe “avvenimenti”.  Forse si scoprirà che le guerre sono fatte ancora una volta per le più sordide ragioni economiche.

C’è un elemento del romanzo che mi lascia un po’ perplesso. Spesso si insiste sul rapporto quasi ossessivo fra questi sfuggiaschi, presi in esame mentre raccontano le loro vicende accadute, e la loro terra d’origine.
Il libico Hamid dice inizialmente “Guardare indietro e sospirare di rimpianto. Oppure sentirsi liberati? No, questo no, mai. Mai liberati dalla propria terra, con essa c’è un cordone ombelicale, eterno”. Espressioni simili sono in quasi tutti protagonisti di questo romanzo.  Il cordone ombelicale non può essere eterno, altrimenti non si diventa adulti. Si rimane attaccati alla propria madre, ma se non ci si distacca da lei non si cresce. Ma come questo avviene nella storia personale di ciascuno, lo stesso non può che essere nei confronti della propria terra d’origine. È necessario il processo di deterritorializzazione perché diversamente il passo è breve a considerare la propria cultura d’origine come la più alta ed intoccabile, con tutte le derive identitarie e sovraniste dei nostri giorni. Al migrante, dice Gezin Hajidari, non può che rimanere il proprio corpo, ed è per questo che egli diventa figlio di ogni territorio ove può contribuire  alla sua crescita alla sua storia.

 

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