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Tre vivi, tre morti

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Dopo aver letto questo testo è impossibile non fare un confronto con il primo romanzo scritto da Ruska Jorjoliani La tua presenza è come una città. I motivi sono molteplici e vanno dalla struttura formale al linguaggio adoperato, ai sensi che i testi propongono. Un primo dato che mi sembra importante rilevare è quello di una evoluzione sul piano della organizzazione strutturale del testo. Il primo romanzo era una sorta di puzzle. Tre vivi, tre morti ha una struttura più chiara e leggibile. Nel secondo romanzo, infatti, sono individuabili due modalità organizzative in rapporto al tempo a cui sono rapportate le narrazioni.  Vi sono due passati e due presenti. I due passati si organizzano secondo un ritmo lineare narrativo ove il tempo è serialmente scandito. I due presenti, intanto sono posti all’inizio e fine del romanzo, mentre i passati con le tre biografie proposte, sono fra i due presenti. L’organizzazione narrativa dei presenti è totalmente diversa da quella dei passati. È fatta per brevi capitoli, per brevi aneddoti.  Anche i tempi narrativi si accavallano a volte.  Viene da chiedersi se la scelta è voluta o risponde solo a necessità narrative interne. Perché una ipotesi che potrebbe essere fatta è che le due modalità di scrittura rispondono ad una evoluzione dei tempi.  La struttura formale del tempo passato si ascrive ad un periodo in cui la modernità come fatto di pensiero era dominante. I tempi presenti rispondono invece ad un periodo ove è il postmoderno che ha preso il sopravvento. In questo romanzo manca la plurifocalizzazione, presente nel romanzo precedente, perché anche se l’attenzione narrativa si sposta da uno o un altro personaggio (lei, lui, lo zio, ecc.) il narratore è sempre esterno. In una sola parte il narratore diventa intradiegetico ed è quando si propongono poche pagine del diario di Aurora, uno dei personaggi principali. Una lettera minatoria, che lo rimprovera della sua vita passata, fa scatenare una sorta di psicosi in Modesto, il personaggio principale, che si è rifatto una vita e un nome dopo essere stato succube delle manie fasciste dello zio materno e aver acconsentito a insani atti di violenza nei confronti di partigiani. Modesto si sente minacciato e perseguitato e teme per la sua stessa vita. Il narratore ha necessità di scrivere la storia di Modesto che prima era Guerino: di bambino quando aveva preso come modello suo zio, sostituendolo al padre come figura di riferimento; della sua amara esperienza in Russia durante la Seconda guerra mondiale, dell’arruolamento nella repubblica di Salò e dell’aver partecipato alla uccisione di tre partigiani, quando ormai era chiaro che la guerra era persa e quindi era del tutto inutile operare tale violenza. Dopo la guerra, rintanato per breve periodo in un ospedale psichiatrico, Modesto si iscrive all’Università, si laurea e diventa insegnante. Sposa Aurora e sembra rifarsi una vita con lei. La vita matrimoniale diventa una routine così che entrambi trovano il modo di ripagarsi anche se non in maniera definitivo. Modesto per risolvere la sua psicosi pensa di andare a trovare chi avrebbe potuto scrivere la lettera e così si allontana per brevissimo tempo dalla moglie, per poi tornare e rimettersi con lei. Il finale del romanzo fa supporre che ormai si ritorna ad una tranquilla vita borghese. Che senso ha il romanzo? Una considerazione è subito da avanzare. L’autrice georgiana, nata nell’Unione sovietica, appartenente all’area dell’est in cui si sono sviluppati eventi anche vorticosi in un breve periodo alla fine del secolo scorso, ambienta il primo romanzo nella sua terra d’origine, il secondo romanzo invece in Italia e in due periodi storici diversi: periodo fascista con la conseguente partecipazione alla Seconda guerra mondiale e periodo postbellico quando la struttura democratica repubblicana si è stabilizzata. Una delle caratteristiche presenti nei romanzi della letteratura prodotta dai migranti provenienti dall’est europeo è data dalla necessità di narrare la situazione politica passata del loro paese e scegliere personaggi e temi che di quel momento storico ne fossero rappresentanti. Avviene così in Beatrice Coman, che sviluppa in tutti i suoi aspetti la situazione della Romania all’epoca di Ceausescu, ma poi anche del dopo con il dramma delle madri che abbandonano il loro paese e i loro figli piccoli per necessità di lavoro. Quasi tutti gli scrittori di origine albanese affondano le loro narrazioni all’interno del periodo della dittatura comunista, che in qualche modo invece di modernizzare il paese l’ha fatto sprofondare nella persistenza della tribalità e di una tradizione vincolante e poco liberatoria. Persino il premio strega di qualche anno fa Helena Janeczek nella maggior parte dei suoi romanzi ha bisogno di ritornare alla sua Polonia e almeno alla Seconda guerra mondiale che l’ha vista completamente martoriata. Aver scelto l’ambientazione in Italia dei suoi personaggi in questo romanzo è significativo perché pone immediatamente l’interrogativo del perché si ha la necessità di esprimersi nella narrazione. Ritornare alle vicende della terra d’origine molto spesso diventa una sorta di rielaborazione del proprio vissuto, elemento presente in moltissimi scrittori. Se in Ruska Jorjoliani avviene uno scarto significativo rispetto alla “location” dell’ultimo romanzo dobbiamo supporre che all’origine della necessità di scrivere ci sia altro. Questo altro potrebbe essere il suo nucleo poetico che incomincia a manifestarsi. Quale sia? È ancora in nuce, non è ancora chiaro, penso, alla stessa scrittrice. Il finale di questo romanzo, ma anche quello del romanzo precedente in cui è un bibliotecario a pensare di organizzare la vita come tranquillo impiegato, fanno ipotizzare che ci sia una valorizzazione della quotidianità. È la vita di ogni giorno, fatta di piccole cose, come alzarsi, lavorare, ritornare a casa, essere contenti di rivedere la propria moglie o il proprio marito, magari trascorrere la serata davanti ad uno schermo a vedere uno stupido spettacolo, che ci assicura un po’ di tranquillità di fronte all’indicibile della nostra vita. Perché ciascuno di noi si porta dietro qualcosa che non può e non deve essere conosciuto pena lo smascheramento sociale e una nevrosi continua con il decadimento in momenti di totale psicosi. Mi pare che il nucleo poetico che sta emergendo sia un canto alla normalità della vita  al valore del quotidiano, che non necessita di tradimenti, di evasioni, di alternative, perché quest’ultime non danno felicità, mentre la prima condizione, se non fornisce felicità almeno assicura serenità. Un ultimo dato voglio sottolineare e riguarda il registro linguistico usato in quest’ultimo romanzo che a me pare a volte stridere con la tipologia dei personaggi. Propongo alcuni termini che possono esserne una dimostrazione: embrici, bagolaro, itterica, niellata. Nomi specifici e particolari che potevano essere sostituiti con termini più usuali, tegole, giallastro, ecc. Sarà stato il fascino della lingua di Dante ad ammaliare. 
marzo 2021

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