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borgo farfalla
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- Creato Sabato, 14 Aprile 2012 07:36
- Ultima modifica il Sabato, 14 Aprile 2012 07:36
- Pubblicato Sabato, 14 Aprile 2012 07:36
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Nel romanzo Il cacciatore di aquiloni Khaled _Hosseini..afferma che “ l’ironia è qualcosa a cui molti scrittori aspirano per tutta la vita, senza mai arrivarci”. Mihai Bucovan, di cui si era apprezzata la capacità di intessere di ironia il suo romanzo Allunaggio di un immigrato, rivela in questa silloge una sorta di continuità col testo narrativo.
Il tessuto di fondo della raccolta poetica è infatti l’espressione di una sottile ironia, mediante la scelta oculata delle parole. Lo scarto poetico è dato proprio dalla ricerca della parola che possa generare un sottile e amaro riso.
L’individuazione della trovata, della coloritura, dell’epifania che la realtà può manifestare è data appunto dalla accurata cernita dei termini sarcastici.
“ Nella tua foiba/ imprigionate le parole / con le parole/ ne faremo/ memoria”.
E’ questa la reale dichiarazione poetica di Mihai Bucovan. Al centro di tutto c’è la parola con la quale è possibile sciogliere una realtà che la storia tende a imprigionare come nelle foibe. Mediante la parola è possibile cercare sorgenti, raccontare sentimenti, scoprire contraddizioni, cercare correlativi, individuare parallelismi.
C’è una lezione ungarettiana che agisce sul poeta di origine rumena è proprio nella centralità assegnata alla parola. E’ la poetica del primo Ungaretti, anche sul piano dell’organizzazione dei versi e degli spazi, che viene richiamato e rivissuto in questa raccolta di poesie. Anche in Mihai Butcovan, infatti gli spazi assumono grande significato e cifra poetica. Strofe di vario numero di versi sono separati da spazi, un punto interrogativo diventa un verso, un’intera pagina bianca segue il titolo della poesia Nevicata finale.
Non è poi un caso che la citazione più significativa, oltre al “m’illumino d’immenso” del poeta alesssandrino, riguardi il gioco verbale operato dal poeta medioevale Cecco Angiolieri il quale usa la parola per scherzare con i sentimenti più profondi e popolari; così come Butcovan usa la parola per sferzare il potere dominante.
La lingua è utilizzata come un fioretto che colpisce e ferisce. L’uso della parola non in maniera espressionistica, come avveniva nei versicoli ungarettiani, ma in trovate ironiche, rischierebbe di fermarsi al gioco inventivo se non venisse corroborata da una profonda risonanza della sofferenza umana, che non ha bisogno di macerarsi in inutili piagnistei, ma deve essere affrontata con virile consapevolezza.
Si prenda per esempio la poesia Auschwitz che rimodella la più nota poesia di Ungaretti. Il verso finale del testo del poeta rumeno “Almeno spero”, sta a significare il dramma che la storia continua a generare, perché nonostante Auschwitz, crimini, genocidi, distruzioni di popolazioni civili continuano a verificarsi e l’esperienza dei lager è appena una speranza di lezione storica, e non una vera lezione per l’umanità che ancora non sa sollevarsi dal suo fango e non sa librarsi in volo a riconquistare una vera libertà. Un buon numero di poesie proposte
in questa raccolta ha come tema quello della emigrazione, segno evidente di una traccia profonda lasciata nella sua esperienza di disaccoglienza, espressione più significativa della storia del nostro tempo.
Significativa è pure, al riguardo, la citazione del XXVI canto dell’inferno ove la peregrinazione dell’Ulisse dantesco diventa la peregrinazione forzata del migrante di oggi. E’ un fatto storico epocale che trasforma il migrante in un Ulisse alla ricerca di “virtute e canoscenza”.
15-09-2006