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Educazione siberiana
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- Creato Sabato, 14 Aprile 2012 07:50
- Ultima modifica il Sabato, 14 Aprile 2012 07:50
- Pubblicato Sabato, 14 Aprile 2012 07:50
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Leggo sul dizionario il significato di epopea: "storia grandiosa e nobilissima (dizionario etimologico on line); narrazione celebrativa di imprese eroiche (Garzanti)".
L'extratesto, in quarta di copertina, del volume pubblicato da Einaudi e intitolato Educazione siberiana di Nicolai Lilin dà questa informazione del senso del romanzo: "Una grande epopea criminale raccontata da chi l'ha vissuta, con una forza che ti agguanta e non ti lascia più."
Questi elementi (il titolo e la quarta di copertina) costituiscono un vero e proprio ossimoro che - se fosse solo poetico - acquisterebbe un senso estetico; ma, poiché un romanzo è indicazione del senso della realtà, l'ossimoro, al di là del senso estetico, assume, in questo caso, un significato direzionale di valori ove la parte positiva viene assorbita e inglobata nella parte negativa. Un elemento di violenza non può essere neutralizzato da fattori di lealtà o di solidarietà, perché il ricorso alla violenza, l'uso di essa in vece della ragione e della legge, in questo romanzo quasi sempre disprezzata, contraddistingue l'animalità rispetto all'umanità.
Questo del resto è insito nello stesso romanzo. In un passo il protagonista, voce narrante, manifesta dei dubbi sull' uso estremo della violenza esercitata per punire alcuni che avevano violentato una ragazza e sull'efficacia a riparare il danno. Egli dice al nonno: "Era giusto punirli per quello che hanno fatto – gli ho detto, - però punendoli non abbiamo aiutato Ksjuša. Quello che mi tortura ancora è il suo dolore, contro il quale tutta la nostra giustizia è stata inutile. Lui mi ha ascoltato attentamente, poi mi ha sorriso e mi ha detto che io dovevo ripercorrere la strada del fratello maggiore di mio nonno, e cioè andare a vivere da solo nei boschi, in mezzo alla natura, perché ero troppo umano per vivere in mezzo agli uomini."
Lo Stato (è indifferente che in questo caso sia l'URSS, perché potrebbe essere qualsiasi altro Stato), la sua forza pubblica è sempre vista come qualcosa di negativo. L'autore sembra anzi affermare che l'attuazione dello Stato di diritto non abbia più senso e valore moderno del ritorno a usi e costumi o regole dettati solo da codici tramandati. Né pare considerare il fatto che l'abbandono del diritto e il ritorno alla legge orale al posto di quella scritta riporterebbe la società a d una situazione premoderna.
Solo per questi aspetti il romanzo di Nicolai Lilin lascia molte perplessità.
Vi è un secondo dato extratestuale che lascia ancora più perplessi e fa venire il dubbio che il tutto configuri una operazione commerciale; perché -, come è noto- il raccontare malefatte, società torbide, in questo caso condite da codici di onore simili a quelli mafiosi, produce "cassetta".
L'autore, giovanissimo, nato nel 1980 in Transnistria, regione del Caucaso, è arrivato in Italia nel 2003. "Questo è il suo primo romanzo – si legge – ed è stato scritto direttamente in italiano". All'interno della pagina di copertina viene anche detto: "…come lo stile che è intenso ed espressivo, anche in virtù di una buona ma non perfetta padronanza dell'italiano, che risulta ora sgrammaticato, ora troppo esatto, ora contaminato".
Si tratterebbe quindi di un'opera elaborata da un immigrato, di lingua slava, che nel giro di poco più di 4 anni ha imparato la lingua italiana con la padronanza che si avverte leggendo il testo.
Chi ha qualche pur lieve esperienza di insegnamento della lingua 2, sa che in 4 anni, anche nel caso di persone coltissime, che abbiano frequentato massimamente la nostra letteratura è molto difficile e arduo che si arrivi ad una conoscenza della nostra lingua in maniera talmente consapevole da farne oggetto anche di semplice opera di scrittura.
I primi testi degli migranti apparsi nei primi anni '90, venivano lealmente presentati come scritti a quattro mani; cioè l'immigrato, che pur conosceva l'italiano e incominciava a coglierne sfumature, affidava la scrittura narrazione ad un italiano che sapeva maneggiare lo strumento linguistico in modo tale da rendere la narrazione lineare e con una lingua corretta e appropriata.
Mohsen Melliti che scrisse autonomamente nel '95 I bambini delle rose era in Italia dal 1989 e i suoi studi erano stati prevalentemente imperniati sulla letteratura italiana.
Comunque, chi, in qualche modo, è vicino, al mondo della letteratura della migrazione sa che le opere degli scrittori di origine straniera, nei primi tempi, necessitano di un consistente editing, che comporta inizialmente una riscrittura; il che giustifica la prima definizione di scrittura a quattro mani.
20-07-2009