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Il villaggio senza madri
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- Creato Giovedì, 14 Febbraio 2013 10:10
- Ultima modifica il Giovedì, 14 Febbraio 2013 10:10
- Pubblicato Giovedì, 14 Febbraio 2013 10:10
- Scritto da Raffaele
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Gli uomini nel loro sviluppo storico hanno incominciato a porre l’attenzione ai bambini, ai figli in un’epoca molto recente. Nel medioevo i bambini venivano assegnati, quando non servivano ai lavori in campagna, ai giovani universitari vaganti i quali li rendevano accattoni per poterli sfruttare e camparci sopra, i figli dei signori andavano a fare i paggi nelle case di altri nobili. Ancora oggi li si utilizza per accattonaggio; solo recentemente, si può dire, è entrato nella coscienza umana che anche il bambino è un soggetto pieno di diritti che va rispettato. La storia attuale dominata essenzialmente dalla migrazione spesso dimentica o sottovaluta, ancora una volta, che chi maggiormente ne fa le spese dei drammi che le migrazioni sottendono e comportano sono ancora i bambini privati prima di tutto, oltre che delle essenziali necessità materiali, spesso anche e specialmente dell’insostituibile e fondamentale rapporto che si genera fra madre e figlio che nella specie umana dura anni e senza il quale si sviluppano traumi e sofferenze i cui effetti non sono prevedibili.
Ingrid Beatrice Coman ormai trilingue (romeno, italiano, inglese) ha scritto questo testo come un omaggio a quei bambini che per molte cause si trovano senza madri perché sono dovute andar via per ragioni di lavoro o altro, mostrando così estrema sensibilità ad un problema che spesso si dimentica e si sottovaluta. Sono 10 racconti scritti in due versioni, romeno e italiano. Il punto di vista è sempre quello del bambino/a che guarda agli avvenimenti senza comprenderli perché sono privati del loro affetto più naturale e più necessario, quello della madre. Dieci racconti per narrare la sofferenza di un figlio/a privato dell’affetto della madre, e di sofferenza si tratta così acuta che a volte rischia di portare a sentimenti estremi, a gesti estremi ed inspiegabili, come quello di non poter scrivere la “m” insieme alle altre lettere dell’alfabeto perché quella lettera è segno della mancanza, dell’assenza di una persona e non può essere scritta, così come era impossibile per gli ebrei cantare in terra straniera. Ma ancora viene descritta la sofferenza di quella bambina che non si lascia toccare perché vuole mantenere intatto il ricordo dell’ultima carezza della madre. La sofferenza interiore si manifesta prima di tutto nella fisicità. Alcuni racconti fanno emergere l’impossibilita che parenti possano sostituirsi all’affetto di una madre, perché quando questa è assente avviene il rischio di essere sempre e comunque considerati delle “cenerentole”. Un racconto sembra non riguardare il rapporto affettivo fra madre e figlio ma quello di un bambino con un animale, un maiale. E’ il racconto di Daniel che, vissuto sempre con un maiale, non riesce a concepire come possa essere sacrificato per la gioia degli altri, che festeggiano l’arrivo del Natale. In Ingrid Beatrice Coman il rapporto fra bambini e animali assume un tema delicato e importante. Anche nel romanzo “Per chi crescono le rose” un episodio narra del rapporto straziante fra un bambino e un cervo che il nonno deve uccidere per poter dare un po’ di cibo alla famiglia. Sembra quasi che si crei fra bambino e animale un rapporto speciale che gli adulti infrangono e che segna il momento della rottura dell’innocenza.
Un elemento da notare e sottolineare è l’assenza della paternità. Già in altri testi si era visto come la figura maschile non abbia grande risalto negli scritti della Coman. In questa raccolta di racconti il fatto è ancor più accentuato. Ci sono i nonni, ma più spesso la nonna. L’unico padre a cui si accenna è visto negativamente perché non sa neppure essere fedele alla moglie e non ha quel legame di fiducia e di amore che può costituire un famiglia.
Il testo è scritto con intensa partecipazione alla sofferenza dei bambini privati dell’affettività dei genitori. Non è possibile leggerlo con indifferenza o con distacco perché di volta in volta si rimane a riflettere del perché nella società attuale è possibile che madri siano costrette a lasciare i loro figli, a volte anche dimenticandosene.