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corpo presente Gezim

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La totale indigenza annulla ogni speranza e fa incontrare il limite dell’uomo che non è altro che la sua corporeità.
In questa silloge il corpo, nel suo insieme e nelle sue parti (sangue, voce: parole che poi assumono altri significati, sono portatrici di altri simboli), è trattato con ampiezza. E’ il riferimento, il luogo ove si svolgono sentimenti, ove si snodano ricordi e ripensamenti sulla condizione di esiliato. Non c’è in questa raccolta il senso della solitudine, ma la constatazione che al limite è il corpo con le sue necessità anche biologiche, oltre che affettive, l’elemento che nella realtà dell’esilio vive il dramma maggiore, deprivato di tutto ciò che possa innalzarlo a qualche sentimento più aperto e fiducioso.
Permane il substrato della solitudine, effetto di un esilio forzato e non cercato, ma sono in nuce, nascosto, perché la condizione dell’esiliato e il sentimento della solitudine non necessariamente si scontrano con il corpo. Ciò avviene solamente quando la deprivazione fisica porta alla superficie le sensazioni corporali della fame, del freddo, del disagio quand’esso è esposto e non protetto e non viene soddisfatto nei bisogni primari.
La grandezza del poeta non è però quella di soffermarsi sui disagi che il fisico sopporta ed incontra, ma di far assumere al fisico, al corpo la dimensione dell’alterità, di farlo diventare lo strumento di una liberazione.
Forse è proprio in questa silloge che con maggiore chiarezza si comprende come il “tu”, presente in molte composizioni ed apparso anche nelle raccolte precedenti, equivocamente interpretabili, sia il proprio corpo o la manifestazione fisica della presenza del corpo che è data dall’Ombra. "Mi sto consumando a poco a poco / nell’umidità delle stanze sgombre / denunciando la mia voce / nascosta tra le pietre / per questo chiamo la mia Ombra / uccisa in un altro paese / dai sassi con i sassi."
Questa breve poesia racchiude in ogni verso la direzione tematica e di ricerca poetica della silloge: la consunzione corporale, l’esposizione del fisico ai rigori e all’inclemenza del tempo (nell’umidità), la povertà della condizione di esistenza (motivo già apparso anche in altra raccolta), la necessità di un’espressione poetica non ancora conosciuta, non ancora apprezzata, il rifugio nel proprio io (alterità), soffocato perché esiliato e impossibilitato a relazionarsi perché l’interlocutore è insensibile ad ogni voce poetica (uccisa dai sassi con i sassi).
La necessità corporale portata al limite può essere constatata anche in un’altra poesia: “E io sogno un letto asciutto / dove poggiare il mio corpo leggero / questo corpo spaventato / di sangue – acqua /…”.
Il limite della sofferenza corporale è la morte: “…e ricopriranno il mio corpo di nuovo /…/lenzuola di marmo / Ombre balcaniche / e sguardi di donne sconosciute”.
Il processo poetico di questa silloge si sviluppa su più piani, ma assume, seppur in maniera nascosta e forse inconsapevole allo stesso poeta una dimensione dialettica ove i poli di opposizione sono da una parte l’Albania, la terra d’origine che ha rinnegato il poeta e l’ha costretto a fuggire, dall’altra il territorio d’arrivo, l’altro paese, che non lo riconosce, che lo ignora, da cui si sente annullato nella sua potenza vocale e poetica.
Il tormento di cui soffre il poeta è in special modo dovuto all’afasia a cui viene costretto, una reale afasia perché la sua voce anche se emessa è inascoltata, ritorna indietro, è “pietra scagliata contro vento”.
Ma ogni struttura dialettica, se la si vive nella sua dimensione positiva di percorso, se non si rimane impietriti, come accecati dalla Gorgone, da uno dei due poli del percorso dialettico, porta ad una evoluzione, ad una fase successiva, ad uno sviluppo. Il percorso non può che essere faticoso e purificatore fino al limite di un percorso ascetico che conduce alla dimensione del limite mistico (l’assenza di Dio). Il punto d’approdo è dato dalla liberazione da ogni dipendenza territoriale, l’assunzione di una umanità liberata da ogni condizionamento fisico e affettivo, da ogni patria, da ogni legame col paese d’origine, ma liberata anche da ogni assunzione di altra patria, altro territorio, altro paese d’adozione.
“Sono la verità /…/ vivo sospeso / senza appartenere a nessuna dimora / al bivio di un equilibrio / ho camminato con passo lento /…/ per raggiungere l’alba dell’indomani / di incendi e tregue /…” E’ questa una poesia carica di spunti illuminanti. La disappartenenza diventa un valore, una ricerca di vita che non può essere disattesa per lusinghe e richiami di sirene “mi cercano nelle città marine / io parlo con i sogni divorati al tramonto / della bufera / mi aspettano in fila alla partenza / mi trovano ubriaco nelle piazze / in nome di Itaca / vogliono darmi per forza una patria / io penso all’alba / che mi porta all’indomani.”
La disappartenenza è un superamento delle cosiddette “identità multiple”, cioè di appartenenza a diverse identità culturali, a diversi legami territoriali.
Quando l’uomo diventa libero è solo uomo, senza alcuna altra definizione, senza alcuna altra appartenenza identitaria che lo fisserebbe, lo fermerebbe, lo inchioderebbe a qualcosa, mentre la vita è continua ricerca ed eterno cammino.
Il processo ascetico purificatore non è indolore, perché vi è sempre il richiamo e la tentazione di un percorso a ritroso, più rassicurante. Il poeta se lo chiede senza darsi una risposta, ma con la consapevolezza dell’impossibilità di romantico e malinconico ritorno a patria, identità, territorio d’appartenenza ecc. “…/ Avrebbe senso ritornare / nel tuo sangue? / Come in altri tempi /ripeto parole di pietra / e volti sconosciuti rimpiangono / un territorio / svanito per sempre.”
La tentazione del ritorno al sangue in questo caso la propria identità è forte “Ed io / scavato da ombre e pietre / trascorro le notti italiane / nel gorgoglio del sangue / Da anni in ansia e paura di morire /”. Ma così la sofferenza per questo parto che non può non essere doloroso “…Acqua buia / che mi stai vicino, avvicinati di più / salvami dal calvario che si ripete / nel mio sangue e nella mia carne / non so cosa succederà di me “. Il dolore assume quasi una dimensione religiosa, non solo per il riferimento al “calvario”, ma perché il distacco, la separazione dall’identità, dal territorio d’origine è straziante “…Anch’io domani scomparirò / come un monaco mesto / e il mio corpo lacerato / suonerà sotto piogge balcaniche / ma le nostre Ombre sfiorate / e lontane nell’oblio / esuli e straniere resteranno / su questa Pietra di Cervara”.
In questo crogiuolo purificante a volte il poeta raggiunge la consapevolezza del cammino che deve ancora percorrere “…/ fuggo senza sosta / nelle terre straniere / e non trovo a chi consegnare il mio / segreto d’uomo.” La patria è morta, il legame di sangue è morto, Dio è morto ed è rimasto solo l’uomo.

 

Marzo 2006

 

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