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spine nere Gezim

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Gezim Hajdari ci propone nell’ultima raccolta Spine nere una poesia modellata con modalità spesso nettamente diverse da quelle delle raccolte precedenti. Cambiano temi, oggetti, parole chiavi. Rimane immutato il ritmo e la musicalità, elementi peculiari della poesia di Gezim.
Intanto il poeta sembra uscire dal suo io e incomincia a fare i conti con la quotidianità, con le piccole cose che diventano elementi epifanici di una condizione universale dell’essere uomo. La vicina di casa, la finestra, sono esempi significativi di questo modo di far poesia.
Poi l’attenzione si sposta dal proprio corpo, dal proprio sentire, al corpo, al sentire dell’altro. Può essere la madre, una donna. E’ poco significativo, perché è cifra poetica questo inglobamento altrui nella condivisione dello “straniato”.
Il poeta non ritorna su se stesso, ha bisogno che altri l’accompagnino, lo affianchino in questo viaggio di dolore ed espiazione.
Gli elementi simbolici intensi, corporei, materiali che dominavano nelle raccolte precedenti (pietra, sassi, pioggia, vento..) si stemperano in visioni naturali (melograno, gelso, biancospino) che inducono e introducono ad elementi di più significativa speranza.
L’attenzione che il poeta rivolge alla natura lo riavvicina alla poesia di erbamara, quando la natura aveva il suo valore estatico. In questa silloge acquista anche un valore liberatorio “Abbiamo guadagnato la vita passo per passo / abbandonati al nostro destino / tra fuochi e frane / nei giorni tristi ci guardavamo l’un l’altra negli occhi / gioivamo quando fioriva il mandorlo / e cantava il merlo nel giardino di giuggiole.”
La natura, ormai ridiventata amica, ormai riacquistata importanza, è la testimone dei suoi pensieri, delle sue azioni: “Anche tu pino che ti affacci alla mia finestra in esilio /……./solo tu sei testimone delle donne nude nel mio letto / e dei miei amori clandestini.”
Pur nell’insieme di composizioni stemperate e rasserenanti non manca la persistenza della angoscia esistenziale determinata dalla lontananza dalla patria: “Voglio che il mio corpo riposi lontano dalla patria / le mie ceneri si spargano altrove / e i miei canti vengano gettati nel fango / come gli avanzi del pasto / ai cani randagi”.
Anche in questa raccolta ci sono squarci di pura lirica, fatta di pochissimi versi ricolmi di senso e significato.
Si prenda per esempio “quella mela rossa/dimenticata sui rami denudati dell’autunno/è il mio cuore appeso”, che, di ungarettiana sintonia, prorompe per la ricchezza semantica. I versi di Gezim sono a schema libero, anche la divisione delle strofe non risponde ad una struttura schematica, piuttosto ad un ritmo di musicalità interiore. L’elemento formale su cui il poeta italo-albanese gioca molto per dar corpo alla forma poetica è quella dell’assonanza, di ricorrenze di vocali uguali. Non è indifferente questo fatto perché è proprio a partire da questa modalità tecnica che è possibile risvegliare echi interiori di sentimenti e di meditazioni poetiche.
In questa raccolta appaiono due brevi poemetti. Il primo intitolato Spine Nere, il secondo Occidente, dov’è la tua besa?.
Questa sperimentazione è importante perché Gezim aveva finora rivelato una sicura capacità poetica nella composizione della forma lirica, cioè nel racchiudere in pochi versi, in un crogiuolo di parole, forti cariche emotive senza dover ricorrere a descrizioni o storie. La lirica è strutturata per fornire molteplicità semantiche nelle quali il lettore riesce a ritrovarsi agevolmente.
Il poemetto, invece richiede la storia, la narrazione e il suo esito è essenzialmente metaforico. Nel poema la tensione del lettore non si esaurisce in un momento, ma richiede di dilatarsi temporalmente e di essere manteneta fino alla fine; e ciò per entrare davvero in sintonia col poeta e cogliere il significato metaforico della lettura fatta.
E’ quasi una sfida che Hajdari ha cercato per scoprire le sue potenzialità ed espressività poetiche. Ad ogni poeta, de resto, si impone la sperimentazione e la ricerca, pena l’esaurimento della propria vena ispirativa.
Spine nere narra le vicende di un ragazzo di cui fin dal momento della nascita si prefigurano grandi aspettative sul glorioso futuro e sulla vocazione poetica. Un’infrazione lo costringerà a rifugiarsi in un amaro esilio, dal quale ritornerà solo di nascosto, su un cavallo bianco, nel buio della notte. Il poema è il tentativo di epicizzare la propria vita, perché “di pietra in pietra verrà scolpito il suo verbo / nei secoli la sua storia d’uomo verrà narrata”.
Ghezim Hajdari vuole affermare che egli è cosciente della sua capacità poetica e del fatto che verrà riconosciuto (“il suo nome vivrà in eterno”) anche se la fase attuale è dominata dall’espiazione dell’infrazione, anch’essa mitologicizzata, ma inconoscible.
Il secondo poema, Occidente dov’è la tua besa, è invece un inno alla madre e alle sue angosce per la sorte del figlio lontano da casa e in esilio; una madre sempre timorosa che le riportino il figlio senza vita.
Il risultato è significativo: è una poesia carica di tensioni. La modalità poetica, le evocazioni tipiche del poeta italo albanese, le sonorità, fanno sì che i poemetti proposti assumano decisamente la dimensione dell’epica e non solo quella del racconto in versi.

 

Marzo 2006

 

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