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Storie del pianeta veronetta
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- Creato Domenica, 23 Ottobre 2022 17:42
- Ultima modifica il Domenica, 23 Ottobre 2022 17:42
- Pubblicato Domenica, 23 Ottobre 2022 17:42
- Scritto da Raffaele
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Ma, più che per gli aspetti sopra elencati, questo testo della scrittrice di origine ucraina presenta spunti interessanti perché l’io narrante assume facce sempre diverse. Ora è una eterosessuale, ora invece è un omosessuale, ora è una donna, ora è un uomo. Il pregio della scrittura consiste proprio in questa capacità di assumere psicologie diverse e modi di pensare ora maschili, ora femminili, ora omosessuali ora lesbiche.
È l’amore il protagonista di questi racconti, in tutte le sue sfaccettature. E tuttavia, emerge un aspetto particolare e cioè la corporeità della domanda d’amore. Non è l’amore platonico, ove il fisico gioca un ruolo secondario, non è l’amore struggente, ma ideale, petrarchesco, tenderei a dire, ma è l’amore che esige il coinvolgimento del corpo, che sente il fascino fisico della persona che si ama o vorrebbe amare. In special modo è la figura femminile ad avvertire questa necessità del contatto fisico e desiderare che si sia schiacciati dal peso corporeo dell’altro. Le descrizioni d’amore sono sempre solo allusive e non scadono mai nella volgarità.
Le storie sono quelle che si possono verificare quotidianamente. Tradimenti e gelosie di persone che sembrano amarsi. L’amore, quindi non riesce mai ad essere esclusivo. Anche se si è madre in un rapporto felice con il proprio uomo, tuttavia può accadere che ci si lasci trasportare e desiderare fisicamente da un altro. Proprio come è la vita, incerta, varia, sempre nuova, così la realtà dell’amore è sempre nuova, cangevole, variabile. Ci si incontra e ci si lascia. Serpeggia qua e là, però, la paura e il timore della solitudine, della impossibilità di trovare la persona con cui poter condurre avanti la vita, che, da soli, è molto più ingrata che se la si conduce insieme a qualche altra persona. Ma più che una solitudine spirituale quello che sembri manchi sia la solitudine corporale. Il corpo dell’uomo (maschio o femmina che sia) necessita di contatto con un altro corpo.
È da sottolineare come le narrazioni prospettano il superamento di pregiudizi di ogni genere da quello etnico-razzistico a quello di genere. Ma sembra che questa prospettiva sia ancora acerba e non produca completamente esiti positivi. Si prenda ad esempio l’ultimo racconto Una giornata quasi perfetta. L’amore in questo caso sembra abbia la meglio sui pregiudizi. Un islamico che è innamorato di una ebrea è quanto di più difficile da superare. Ma anche la differenza di età si pone come problema. Lei di una quindicina d’anni più anziana di lui, che nella cultura popolare araba è alquanto anacronistico perché si accetta che l’uomo sia anche più grande e, a volte, molto più grande della ragazza o fanciulla; il contrario fa nascere sospetti e dubbi. Ancora, nel racconto Ruslan, il protagonista Bruno, che aveva sognato per tutta la giornata di poter avere un approccio corporale con il turista russo Ruslan, alla fine, non riesce a dichiarare il suo desiderio e deve accontentarsi di un semplice abbraccio.
Infine, mi sembra importante segnalare quell’aspetto dei racconti di Marina Sorina che conferisce loro un tocco di poesia. Mi riferisco alla inconcludenza delle storie raccontate. Nessuna si conclude definitivamente, ma tutte lasciano il varco aperto a successivi avvenimenti, a successive riaperture delle storie. Si rimane da una parte delusi perché si vorrebbe sapere se il marocchino, personaggio dell’ultimo racconto, riescirà a contrapporsi alla sorella e a difendere il suo amore, si vorrebbe sapere se Asaf poi ritornerà con la possibilità di un’apertura di una storia d’amore con lui da parte della protagonista nel racconto La neve.
Tutti questi elementi fanno del testo di Marina Sorina qualcosa di avvincente che si legge con curiosità ed interesse.
Lo scopero degli invisibili
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- Creato Domenica, 23 Ottobre 2022 15:25
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- Pubblicato Domenica, 23 Ottobre 2022 15:25
- Scritto da Raffaele
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Si va dalla traversata del deserto con il consueto incontro di bande libiche che chiedono risarcimento alle famiglie d’origine, il solito viaggio nella barca stracolma, l’inevitabile naufragio.
Anche le esperienze fatte nel paese d’arrivo, in questo caso l’Italia, sono del tutto simili a quanto è già stato scritto. La precarietà dell’alloggio, del vitto, lavori avventizi, l’entrare nella rete della mafia, ecc,.
E poi i soliti amori, guarda caso con la figlia di un imprenditore, ma poi anche con altre donne più o meno sempre disponibili.
Più originale è invece tutta la prima parte quando si narra delle esperienze dei cosiddetti “talibè”, sia perché si racconta di vero asservimento di ragazzi con il pretesto di educarli, sia perché riporta un po’ la consuetudine del mondo, forse, subsahariano di organizzare l’educazione dei fanciulli.
La modalità mi fa venire in mente quanto accadeva nel medioevo in Europa quando le famiglie bene spesso affidavano i loro figli ai chierici vaganti per un inizio di istruzione e questi li utilizzavano perché chiedessero l’elemosina e raccogliere danaro per pagarsi le lezioni in Università.
L’altro fatto di merito di questa narrazione è dato dalla vicenda che accade a ciascun dei tre protagonisti. Solo uno di essi si salva, alla fine gli altri due muoiono in circostanze diverse, uno per incidente stradale ed un altro ammazzato dalla mafia.
La ragazza di piazza Tahir
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- Creato Domenica, 23 Ottobre 2022 15:05
- Ultima modifica il Domenica, 23 Ottobre 2022 15:06
- Pubblicato Domenica, 23 Ottobre 2022 15:05
- Scritto da Raffaele
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La storia è molto scarna, fatta di pochi elementi. Si è invece in presenza di ricche considerazioni sulla necessità della ribellione di fronte a poteri che continuavano e continuano a non fare gli interessi della gente e pensavano e pensano solo a mantenere il potere ed arricchirsi. Ma nel romanzo sono presenti anche intense argomentazioni sul valore della democrazia e della possibilità della libertà che essa assicura.
In un contesto arcaico, ove la considerazione della donna è quasi nulla, perché valutata solo quanto riesce a soddisfare il potere dell’uomo, si staglia una condizione di modernità, anzi di contemporaneità che viene dato da internet, dall’uso dei social che permette d’un sol colpo di andare oltre la situazione di soffocamento che condanna giovani e ragazze. Sono proprio quest’ultime a beneficiare maggiormente della grande apertura che permette la frequentazione dei social e attraverso lo strumento delle amicizie, si ha la possibilità di mettere a confronto le proprie idee con quelle di altri coetanei, si ha la possibilità di maturare e far crescere le proprie posizioni.
Il romanzo, quindi, narra l’anelito alla libertà che conquista una ragazza, vessata e maltrattata dalla madre proprio perché femmina e non maschio, nel tentativo di preservarla da presunti pericoli e mantenerla il più possibile intatta fino al matrimonio, offerta ad un ipotetico marito imposto. L’aver partecipato ad una prima manifestazione fa scaturire nella ragazza la consapevolezza che ormai deve disobbedire a sua madre e seguire la propria strada. Il romanzo descrive con poche pennellate, ma che danno la chiarezza di cosa sia capitato a piazza Tahrir nel 2011, le lotte che vi sono state e la vittoria conseguita con la cacciata di Mubarak.
Alcune situazioni non vengono troppo spiegate, né è possibile intuirle. Il fratello di Amal, la ragazza di piazza Tahrir, ad esempio, descritto come un osservante fanatico, lo si trova molto attivo fra i dimostranti. Che cosa l’ha mutato? Nella narrazione non si dice nulla sulle circostanze che l’hanno indotto ad un cambiamento così radicale. Le circostanze esterne sono quindi la causa che porta a modificazioni degli animi e dei comportamenti. Oltre al fratello, anche la burbera madre, alla fine cambia e così anche il padre, che buono d’animo, ma anche aperto, fino ad un certo punto mantiene un atteggiamento timoroso e incapace di scegliere e assumere le proprie responsabilità.
Le vite private e quelle pubbliche si incrociano e si influenzano reciprocamente. D’altra parte, è ciò che avviene in ogni rivoluzione, anche se poi sembra sempre vincente il detto di Tommaso di Lampedusa quando nel suo romanzo afferma che bisogna cambiare tutto perché nulla cambi, che fa da pendant a quanto già Verga affermava e cioè che in aria ci vanno solo gli stracci.
La sponda oltre l'inferno
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- Creato Domenica, 23 Ottobre 2022 15:16
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- Pubblicato Domenica, 23 Ottobre 2022 15:16
- Scritto da Raffaele
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La storia viene incentrata sulla confessione di cinque naufraghi, fra cui una donna. Un barcone si era rovesciato lasciando in mare decine di persone. In pochi si salvano e fra questi i cinque che si ritrovano a raccontare la loro storia. Provengono da paesi diversi, ma le cause che portano alla fuga dal loro paese è quasi sempre la stessa: la guerra e mancanza di prospettive.
L’altro dato che viene messo in evidenza è la durissima condizione che ciascuno di loro ha dovuto sopportare in Libia, vista come una prima meta da cui poter poi lanciarsi verso le sponde oltre l’inferno, perché la loro condizione prima di approdare a Lampedusa è solo e solamente inferno.
Non è però una raccolta di singoli racconti, ma è un romanzo a tutti gli effetti perché esiste un narratore unico, anche se tenue, che sorregge la trama narrativa.
La grandezza di questo testo, che si legge d’un sol battito di ciglia, sta nel saper tratteggiare con precisione e nel medesimo tempo delicatezza le violenze, le torture a cui sono sottoposti chi sta scappando e sta cercando di arrivare in Libia per il gran salto.
Sono le donne quelle che maggiormente vengono colpite nella carne e nello spirito, perché stuprate, violentate ripetutamente da singoli, da gruppi per tempi lunghissimi. È quello che accade a Siham, ad Halima, è quello che accade a Fnan. Il mondo maschile sta diventando spietato. Non so se sia sempre stato così nella storia dell’umanità, ma sembrerebbe che sia il colpo di coda di un potere che, gli uomini sanno benissimo, sta venendo meno.
Il romanzo è anche capace di offrire uno sguardo storico, da saputo giornalista direi, perché la storia sugli avvenimenti della Libia, della Siria, del Darfur e di tanti altri paesi è ancora tutta da scrivere, tanto vicini sono i fatti, che Brodel definirebbe “avvenimenti”. Forse si scoprirà che le guerre sono fatte ancora una volta per le più sordide ragioni economiche.
C’è un elemento del romanzo che mi lascia un po’ perplesso. Spesso si insiste sul rapporto quasi ossessivo fra questi sfuggiaschi, presi in esame mentre raccontano le loro vicende accadute, e la loro terra d’origine.
Il libico Hamid dice inizialmente “Guardare indietro e sospirare di rimpianto. Oppure sentirsi liberati? No, questo no, mai. Mai liberati dalla propria terra, con essa c’è un cordone ombelicale, eterno”. Espressioni simili sono in quasi tutti protagonisti di questo romanzo. Il cordone ombelicale non può essere eterno, altrimenti non si diventa adulti. Si rimane attaccati alla propria madre, ma se non ci si distacca da lei non si cresce. Ma come questo avviene nella storia personale di ciascuno, lo stesso non può che essere nei confronti della propria terra d’origine. È necessario il processo di deterritorializzazione perché diversamente il passo è breve a considerare la propria cultura d’origine come la più alta ed intoccabile, con tutte le derive identitarie e sovraniste dei nostri giorni. Al migrante, dice Gezin Hajidari, non può che rimanere il proprio corpo, ed è per questo che egli diventa figlio di ogni territorio ove può contribuire alla sua crescita alla sua storia.
La linea del colore
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- Creato Domenica, 23 Ottobre 2022 11:41
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- Pubblicato Domenica, 23 Ottobre 2022 11:41
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Questo è un primo elemento sotteso a tutto il romanzo. Un secondo, forse più direttamente significativo agli occhi dell’autrice riguarda la continua focalizzazione della violenza perpetrata in molti momenti della storia nei confronti degli africani e in special modo di quelli dalla pelle nera. Schiavizzati per secoli, ritenuti figli di Cam e quindi con diritto di renderli tali, solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri e quindi in possesso di un’anima. Forse noi occidentali non ne abbiamo ancora la totale consapevolezza di un’acredine che cova per come ci si è permesso per secoli di brutalizzare persone, popoli, solo perché avevano un colore diverso di pelle. E tuttavia il romanzo di Igiaba Scego è un affresco alla capacità di una città come quella di Roma di accettare la diversità, di conglobarla nella propria vita quotidiana.
Il romanzo della scrittrice, ricordiamocelo italiana, ha una pregevole caratteristica formale. E’ strutturato a modalità oscillatoria. E’ come un pendolo che in un verso affronta temi e storie narrative della seconda metà del milleottocento, nell’altra metà invece ci si riporta ai nostri tempi. Questa dimensione pendolare è rigorosamente costante. Nella parte ottocentesca il personaggio principale è una pittrice “Lafanu”, nata negli Stati Uniti, ma trapiantatasi a Roma in cerca della sua affermazione artistica che solo la città eterna le avrebbe potuto permettere. Lafanu, personaggio inventato è una persona di colore alla costante ricerca della sua libertà. Una violenza subita sembra per un momento portarla alla distruzione, ma la sua capacità artistica, disegnatrice e pittrice, la salva. Per sviluppare e affermare la sua arte rinuncia anche al matrimonio con un suo amato, anch’egli personaggio noto negli ambienti dell’abolizionismo statunitense. Questi si era liberato dalle catene dello schiavismo fuggendo e con una sua narrazione era diventato famoso.
Anche a Roma Lafanu, dopo l’eccidio di Dogali, rischia di essere travolta da una folla inferocita contro i neri, ma viene salvata da un uomo che di lei poi si innamora e le chiede di sposarlo. L’artista americana è una persona sincera e prima di dare una risposta si mette a scrivere e raccontare la storia della sua vita. Tutta la parte ottocentesca del romanzo è in fondo la scrittura della sua vita fatta da Lafanu. Però solo in brevissime parti il narratore è intradiegetico, nella maggior parte è extradiegetico. E’ forse lo stratagemma perché Lafanu possa essere visto come personaggio nella sua oggettività e si possa permettere al lettore una identificazione più lineare.
L’altra parte del pendolo è invece ambientato in diverse parti d’Italia, specie Venezia e racconta di una organizzatrice di eventi artistici, anch’ella nera, Leila, che si propone di far conoscere la grandezza dell’arte di Lafanu. La Biennale di Venezia sembra essere il luogo e ambiente adatto allo scopo. All’interno di questa storia c’è anche quella di Binti cugina della protagonista. Dimora a Mogadiscio e desidera andar via e cercare una sua affermazione che nel suo paese è difficile trovare. La narrazione del tempo attuale è contrassegnata dalla storia della fuga di Binti e delle sue tristi vicende. La storia di Lafanu e quella di Bitti corrono quasi in parallelo.
Più storie quindi si intrecciano formando un affresco di ampie dimensioni. E’ un po’ come avviene per i grandi quadri in cui c’è una storia principale, ma contornata da altre che danno spessore alla prima e principale narrazione.
Igiaba Scego, che nei primi romanzi aveva affrontato aspetti del colonialismo e del neocolonialismo italiano, da tempo incomincia ad intessere le sue storie prendendo ad esame tutta la sofferenza che nei secoli hanno affrontato gli uomini di colore. Il suo sguardo dalla Somalia si è allargato a tutta l’africa subsahariana. E d’altra parte le vicende attuali dell’Italia non la lasciano tranquilla.